Ma davvero i ragazzi non possono farcela da soli?

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Qualche tempo fa i genitori di un ragazzo sveglio e intelligente, alle prese con l’inizio del liceo classico, mi dissero di aver già contattato insegnanti di latino, greco e matematica, per organizzare sessioni di ripetizioni “preventive” fin dai primi giorni di scuola. Io chiesi perché, e loro mi risposero sorpresi: “Beh, perché sono materie difficili, dottoressa”. In effetti, negli ultimi anni, capita spesso di leggere articoli di stampa che raccontino del boom di ripetizioni (molte online, dopo il Covid, o in presenza) per sostenere il percorso scolastico di figli e figlie più o meno bisognosi di aiuto.

Lasciare gli ostacoli sulla strada

Sono materie difficili, dottoressa“: ecco, in questa frase c’è un pensiero che vale la pena approfondire. Le ultime generazioni di genitori, di bambini prima e di adolescenti poi, puntano a togliere la difficoltà, a eliminare l’ostacolo. O, almeno, a fare in modo che se proprio ci deve essere sia – a loro giudizio – affrontabile. Mi porto avanti, dunque, come quei genitori, e faccio in modo che con l’ostacolo neanche si scontri e gli/le do io, già belli e pronti, gli strumenti per superarlo.  Peccato che i bambini e gli adolescenti abbiano invece un fondamentale, vitale e profondo bisogno – indispensabile per una crescita sana – di imparare a “tollerare la frustrazione”: è infatti solo con il confronto diretto tra se stessi e un ostacolo che possono scoprire come superarlo e conseguentemente accrescere la loro autostima. L’autostima, di cui si parla tanto e in tutte le salse, nasce infatti proprio quando mi trovo da sola (o da solo) di fronte a un problema e, a un certo punto, magari dopo essermi sforzata anche molto, intuisco il modo di risolverlo, senza nessuno che mi aiuti. Sono proprio io a provare a trovare una soluzione, magari a sperimentare il fallimento e a ingegnarmi per trovarne un’altra che funzioni. E a quel punto: “Wow”, penso, “ce l’ho fatta!”, e creo il precedente per potercela fare ancora e ancora e ancora.

Devo conoscere le mie risorse per poterle usare

Il “problema” può essere quello del bambino piccolo, che, mentre sta imparando a camminare, cade e prova un’inevitabile senso di frustrazione, ma se con le sue sole forze (e un genitore incoraggiante alle spalle, a quell’età), riesce a rialzarsi e a fare un passo in più, si sentirà felice e orgoglioso di sé. I “problemi” ovviamente con l’età diventano via via più grandi, ma il concetto rimane lo stesso: se abbiamo sempre qualcuno che si sostituisce a noi, tenta di appianare i nostri ostacoli, agisce al nostro posto, accadrà una cosa molto spiacevole: non riusciremo a contattare le nostre risorse profonde e crederemo di non possederle. La nostra autostima scenderà anziché salire, crederemo di essere incapaci di gestire le difficoltà e ogni volta che qualcuno farà qualcosa al posto nostro accumuleremo rabbia verso noi stessi e diverremo sempre più fragili e “svogliati”, parola ricorrente in molti adulti nella definizione dei ragazzi di oggi.

Tanti difetti, nessun pregio?

Ma pensiamoci: perché dovrebbe venirmi voglia di studiare se dal primo giorno di scuola ho qualcuno che mi aiuta e posso permettermi di non farlo da solo? Nel mio lavoro da psicoterapeuta mi trovo troppo spesso di fronte ragazzi che sono stati iper-protetti fin da bambini, che non hanno imparato il senso e il valore dell’impegno perché nessuno ha permesso loro di affrontare da soli una difficoltà, di sperimentarsi nel loro valore. Vedo ragazzi e ragazze che sono tendenzialmente infelici, a volte depressi, convinti realmente di non valere niente e di non possedere qualità. Alla domanda che faccio spesso, anche nelle scuole, su quali siano i propri pregi e difetti moltissimi elencano solo una serie di difetti e quando chiedo i pregi ci pensano, ci ripensano e poi rispondono, con gli occhi tristi: “Non ne ho”, o: “Non lo so”. A volte alcuni di loro sono irriverenti o strafottenti, ma dietro questa facciata di finta durezza sono nascosti grandi sensi di colpa, una vulnerabilità profonda e l’incapacità totale di gestire le frustrazioni. Siamo pieni di giovani in cui di fronte a brutti voti od ostacoli di vario genere si innescano ansia, attacchi di panico, vissuti depressivi e pensieri di condanna al fallimento.

La colpa? Attenzione a non scaricarla sui genitori

Attenzione, però, a scaricare tutta la colpa sui genitori come – a questo punto – verrebbe da fare. Questi genitori, il più delle volte, ce la stanno mettendo tutta, spesso con grande fatica e fanno del loro meglio. Sono genitori che, in molti casi, hanno cercato di agire magari in modo antitetico rispetto alle loro famiglie di origine, in cui avevano subito regole troppo rigide e poco calore affettivo, e sono caduti nell’eccesso opposto.
Altre volte mi trovo di fronte ad adulti che, per le loro storie personali e i loro vissuti, non sopportano di vedere i propri figli soffrire, star male per qualcosa, e così si prodigano per risolver loro qualsiasi problema. Ma anche questa buona intenzione purtroppo alla fine rischia di rivelarsi controproducente, perché i ragazzi non imparano a far da sé.
Spesso ricordo loro quanto sia stato importante affrontare senza aiuti o “stampelle” di nessun genere delle sfide nelle loro adolescenze, foss’anche impazzire per ore e ore sui vocabolari di latino e greco e poi finalmente riuscire a tradurre qualcosa di sensato: non tutti i limiti o le rigidità che possono aver respirato nelle loro famiglie sono stati per forza negativi! Ecco allora che sì, certo, i genitori hanno una parte di responsabilità in tutto questo e un cambiamento di rotta potrebbe giovare a loro e ai propri figli, ma la colpa no, quella è altra cosa.

La madre  “sufficientemente buona”

Donald Winnicott, pediatra e psicanalista degli anni 30 e 40 disse che la madre ideale dovesse essere “sufficientemente buona”: presente ed amorevole, sì, ma anche in grado di fornire quel giusto grado di frustrazione che avrebbe preparato il bambino all’età adulta. Ecco, proviamo a ripartire da qui, lasciamo da parte le idee perfezionistiche che troppo spesso accompagnano i pensieri che abbiamo sui nostri figli e, se non ce la facciamo, allora sì chiediamo aiuto agli esperti. Ammettere le proprie difficoltà e fatiche – che fanno parte del nostro essere umani – è sempre un segno di umiltà e grandezza, e prelude al miglioramento delle vite di genitori e figli.

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