La mobilità urbana e le disuguaglianze

Little baby girl riding on scooter with her mom by the car

La micro-mobilità non è femmina e le disuguaglianze esistono anche nel modo in cui andiamo dove…dobbiamo. Praticamente ovunque nel mondo, le donne tendono a compiere percorsi più brevi, spesso non seguendo linee dirette da un punto A a un punto B, tipiche del pendolarismo da ufficio. In percentuale minore posseggono o dispongono in uso primario di un auto. Maggiormente rispetto ai i loro colleghi, mariti, compagni, fratelli si spostano con passeggini, carrelli o borse varie e – Paesi nordici a parte – in genere usano meno la bicicletta. Tendono poi, anche per questa ragione, a prendere più di frequente i mezzi pubblici. A causa di una peggiore o mal progettata viabilità, quindi, donne, minoranze etniche e chi vive in zone più disagiate risultano penalizzati nello spostarsi dentro i confini delle loro stesse città.

Il tema della mobilità cittadina sta vivendo un rilancio, anche grazie all’accresciuta sensibilità per le questioni ambientali. Al contempo è evidente un certo aumento dell’attenzione per la relazione esistente tra il modo in cui ci si sposta e le questioni di parità. Per quanto il legame tra la pianificazione urbana e le diseguaglianze sia decisamente complesso e si manifesti diversamente nelle città del mondo, i vertici (dalla politica alle istituzioni) si trovano a dover rispondere a richieste di intervento pressanti che necessariamente avranno un effetto anche sull’equità sociale. Se infatti le decisioni tradizionalmente dominate da “uomini al potere” hanno in passato privilegiato il ruolo del pendolare automobilista uomo, complice la riduzione drastica delle possibilità di muoversi e nelle abitudini di lavoro degli ultimi due anni, è oggi in atto un visibile ripensamento delle priorità da considerare.

I centri senza auto e le città dei “15 minuti”

Alcune città europee stanno velocemente cambiando il passo in questo senso. Parigi, Barcellona e Vienna per esempio, implementano politiche che scoraggiano il traffico nei centri abitati a favore di pedoni e ciclisti. La capitale francese in particolare, sta lavorando per creare la “città dei 15 minuti a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici”. A Berlino alcuni movimenti di cittadini chiedevano all’alba delle elezioni dello scorso autunno, di arrivare a eliminare del tutto il traffico automobilistico dal centro. Oltre che sulla vita delle donne, per quanto possano non apparire o essere immediatamente chiare le conseguenze, decisioni di questo genere hanno un impatto sulla società anche per quanto riducono, per esempio, alcuni costi sanitari.

L’Italia sembra ancora lontana da vedere realizzato tutto il potenziale della mobilità urbana “lenta”. Seppure la bicicletta era il mezzo privilegiato fino a prima del boom economico, non si parla di un incentivo al suo utilizzo in termini di genere. Le soluzioni adottate sono spesso legate alle opportunità date dal turismo su due ruote. È indubbio però che molte città stanno provando ad adottare proposte specifiche, alcune già in essere già da tempo, altre risultate efficaci. Sono poi segnali importanti i finanziamenti e bonus introdotti in questi due anni anche in risposta alla pandemia. Un esempio su tutti, i fondi del PNRR per l’acquisto di biciclette. Sembra però che ancora non si riesca a uscire dall’immagine indicata nel 2021 da alcuni studi, per cui sono soprattutto le classi più abbienti e chi vive e lavora in città a lasciare la macchina parcheggiata e preferire bici o monopattino nel muoversi in città. Gli altri, per la maggior parte, restano dipendenti dalle automobili, o, dove arrivano, dai mezzi pubblici.

Si sentono meno sicure sulla due ruote, allora camminano

pexels-evg-kowalievska-1231062Tra le altre evidenze, lo studio “Gender differences in active travel in major cities around the world” pubblicato in gennaio, segnala che non c’è una differenza sostanziale tra i generi sulla quantità e le distanze percorse in modo attivo, cioè a piedi o in bicicletta. Nella maggior parte delle città analizzate su 6 continenti, però, le donne, spesso per questioni culturali, tendono a camminare più che pedalare. Questo anche perché si trovano di fronte ostacoli pratici alla mobilità, sono o si sentono più vulnerabili nel percorso che devono affrontare o ritengono, spesso a causa dell’immaginario collettivo, non si tratti di qualcosa adatto a loro. Tra percorsi ciclabili non completi, aree poco sicure e male illuminate o marciapiedi rovinati se non proprio inagibili, la loro libertà nel movimento ne risente, anche rispetto alla distanza che riescono a coprire. Va peggio nelle zone residenziali dove i servizi sono scarsi o che sono lontane da un qualche tipo di centro.

Sicurezza percepita, la maggiore o minore fluidità dei percorsi da affrontare e lunghezza dei tragitti rappresentano tutti insieme ulteriori livelli di discriminazione occupazionale. Sì perché un minore accesso alle città può risultare anche in un ridotto o più complicato processo per trovare o mantenere un lavoro. Senza contare poi quanto il rapporto donna-bicicletta è influenzato dalla cultura dominante. Pare infatti, sebbene sia difficile trovare un legame causa-effetto specifico, che società tipicamente più egalitarie, oltre che sicure – almeno in Europa, Danimarca e Olanda in primis – sono quelle dove esiste una parità nell’uso della due ruote o dei mezzi pubblici rispetto all’automobile. E dove, inoltre, usare la bicicletta rappresenta un modo per mostrare semplicità e trasmettere la sensazione di non essere più importanti degli altri1.

Insomma sembra che quando i temi di diversity sono incorporati nei processi di pianificazione della mobilità, a prescindere dai motivi che li producono, i cambiamenti avvengono rapidi ed evidenti. Portare sempre più persone a preferire di spostarsi in modo “attivo”, è contemporaneamente un passo cruciale per progettare città meno inquinate, congestionate e verdi. Ma che possono diventare anche più eque.

1 Tra le innumerevoli immagini dei rappresentanti dei governi di questi Paesi che si spostano sulle due ruote o a piedi, emblematica la visita qualche anno fa del primo ministro olandese Rutte che chiudeva il lucchetto della sua bicicletta davanti alle porte del palazzo reale all’Aja, andando a un appuntamento con il Re Guglielmo Alessandro.

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