Occupazione femminile e Covid: non solo posti di lavoro persi

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Da quasi due anni, le donne lavorano (sempre) meno e peggio di prima. Ma il Covid in realtà ha toccato pesantemente molto più che il “solo” tema dell’occupazione. Mettendo ulteriormente a rischio i risultati ottenuti fino qui in tema di parità, ha innescato un circolo vizioso che rende ancora più difficile il rilancio dell’emancipazione e partecipazione femminile a lavoro. 

Fino a inizio 2020, buoni risultati sparsi un po’ per il mondo avevano fatto sperare che qualcosa si stesse, quantomeno, muovendo. Forse proprio gli alti livelli di attenzione in materia hanno però fatto capire da subito quanto pesantemente la crisi sanitaria ha e avrebbe colpito le donne in generale. Le lavoratrici in particolare. Molto di più rispetto agli uomini, pure peggio quelle impiegate con contratti fragili, dal basso reddito, appartenenti a minoranze, sole o anziane.

La crescita c’è ma non basta

A luglio l’organizzazione internazionale del lavoro (ILO), nel suo Building Forward Fairer: Women’s rights to work and at work at the core of the COVID-19 recovery, commentava la situazione a un anno dall’emergenza, guardando ai numeri degli ultimi 15 anni. “La riduzione (di occupati) tra il 2019 e il 2020 è stata molto più pronunciata che durante la Grande Recessione” iniziata nel 2008. “Nel 2021 ci saranno 13 milioni di lavoratrici in meno rispetto al 2019, mentre l’occupazione maschile ritornerà entro l’anno ai livelli” pre-Covid. “Nonostante la proiezione della crescita per le donne supera quella degli uomini, tuttavia sarà insufficiente” per tornare ai numeri di prima. Tradotto in percentuali: nel mondo a fine 2021 solo il 43,2% delle donne in età lavorativa avrà un impiego. Lo avranno il 68,6% degli uomini.

Scendendo nel dettaglio delle diverse aree del mondo le differenze non mancano. Si va dal -9,2%, il risultato peggiore, registrato nelle due Americhe ai numeri dei Paesi dell’Asia centrale e dell’Africa che hanno conosciuto un calo di occupazione del 1,9%. Resta invece uguale e condivisa ovunque la constatazione che sono le donne ad aver sofferto in modo sproporzionato le conseguenze della crisi, a partire dalla perdita del lavoro. Impiegate nelle professioni più colpite e spesso proprio annientate dalle restrizioni imposte, hanno subito anche il moltiplicarsi dei carichi familiari, dalle incombenze dell’home-scholing coatto alla chiusura delle strutture di cura per anziani e malati. Spesso economicamente dipendenti, poi, sono state più frequentemente vittime di violenza casalinga. Senza contare che, maggiormente legate a contratti deboli o orari inferiori, per prime e di più hanno subito ulteriori riduzioni di stipendio, quando non sono state costrette a licenziarsi.

Ha commentato di recente Paola Profeta, professoressa della Bocconi e coordinatrice dello studio commissionato dal Parlamento europeo COVID-19 and its economic impact on women and women’s poverty: “il virus ha innescato un circolo vizioso che rende ancora più arduo rilanciare l’ occupazione femminile, specialmente in Paesi come l’Italia dove, già di partenza, una donna su due lavorava. La crisi mette a rischio i risultati ottenuti in termini di parità di genere, in particolare nel mondo del lavoro ma non solo”. 

Ridurre il gender gap

Sì perché se proprio grazie a quei risultati abbiamo capito quali interventi possono ridurre il gender gap, in realtà le risposte politiche contro la crisi attuale non hanno saputo bilanciarlo. Neppure davanti all’evidenza di quei Paesi che, durante la pandemia, hanno pensato a misure specifiche per impedire alle donne di perdere il lavoro e/o permettergli di ricominciare appena possibile. Lì la situazione dell’occupazione femminile è andata decisamente meglio che altrove. Gli esempi vanno dalla Colombia al Senegal dove sono stati creati supporti per le imprenditrici. O dal Messico al Kenya che hanno introdotto quote per garantire alle donne di beneficiare di programmi pubblici per l’occupazione. 

Suggerisce Profeta nel suo commento: “abbiamo bisogno di investire in programmi di istruzione superiore” per le donne (specialmente in temi di finanza e di educazione finanziaria), “considerano che vivono più a lungo e rischiano maggiormente la povertà in età avanzata rispetto agli uomini. Sarebbe inoltre auspicabile intervenire sulla qualità del lavoro femminile, …anche rendendo il lavoro degli uomini più flessibile e ampliando i congedi di paternità”. 

Oggi come forse mai prima, costruire un futuro più equo significa davvero mettere al centro della ripresa la parità e l’eliminazione del gender gap implementando o consolidando strategie di genere. Finanziando meglio, per esempio, l’economia della salute e della cura, settori che generano lavoro e sostengono anche più in generale il lavoro delle donne. Oppure costruendo una protezione sociale sostenibile, comprensiva ed equilibrata. O ancora promuovendo pari compenso per pari lavoro a prescindere dal genere di chi lo svolge. 

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