Un’ondata di maltempo si è abbattuta in queste ore sulla Sicilia orientale, violenta come forse non si era mai vista.
Sembra che piova da sempre. Catania è una città in ginocchio. In due giorni sono caduti oltre 600 millimetri di acqua, l’equivalente delle precipitazioni di sei mesi. Piazza Duomo è sommersa, l’obelisco dell’elefante domina quella che in questo fine ottobre si presenta come un’immensa piscina sotto un cielo plumbeo, anomalo.
L’Amenano è il fiume che in quella zona esce in superficie brevemente, si affaccia appena e fa bella mostra di sé da una fontana che i catanesi chiamano All’acqua a linzolu, per poi restare ingrottato per molta parte sotto al mercato del pesce. In queste ore anche quella fontana è stata travolta, da onde prepotenti. La pescheria, letteralmente spazzata via: i banconi dei pescatori sono cataste di legno fradicio che non serve più nemmeno coprire con le tele cerate. Il fango ha forzato le barricate di fortuna che i commercianti si erano procurati ed ha allagato i negozi che si affacciano su via Etnea, quella che dal centro corre dritta fino all’Etna.
La città barocca sembra devastata dall’acqua ma non va meglio dentro a strutture più recenti. Allagato il nuovo ospedale Garibaldi e alcuni reparti del Policlinico. Piove dentro le aule e le cancellerie degli uffici giudiziari che sono pressoché inservibili. Il palazzo di giustizia è impraticabile, ancora di più la vicina ex pretura. Le condizioni fatiscenti di questi locali sono la ferita ancora aperta di un’edilizia che risale agli anni Ottanta, per mano di quelli che Pippo Fava definì i Cavalieri dell’Apocalisse. Agli avvocati è arrivata comunicazione nella serata di martedì che sospende le udienze in presenza, per 24 ore, eccetto quelle non rinviabili. Catania è ancora – e per un motivo che si va ad aggiungere ai decenni di politica incapace e delinquente, alla mafia, alla crisi economica, alla pandemia, ai rifiuti che hanno invaso ben prima dei fiumi d’acqua le strade e i vicoli – una città in ginocchio. Non basta scriverlo una volta sola, per dare l’idea di cosa stia succedendo. E se per mercoledì è prevista una tregua, da giovedì si aspetta il Medicane, un ciclone mediterraneo che ha già terrorizzato tutta la costa orientale.
Attorno al fiume Simeto che ha straripato furiosamente, è tutta una palude. I campi della piana sono sott’acqua da lunedì. L’alluvione nella prima giornata aveva già fatto registrare due dispersi, in territorio di Scordia. Si tratta di una coppia di sessantenni che alcuni testimoni avevano visto scendere dall’auto, invasa dal fango. Il corpo dell’uomo è stato recuperato in giornata, della moglie non ci sono tracce, invece, e si cerca ancora. I morti sono saliti a due, appena qualche ora fa, quando un uomo di 53 anni è stato travolto ed è annegato a Gravina di Catania, un piccolo comune dell’hinterland etneo.
Centinaia gli interventi dei vigili del fuoco, il sindaco metropolitano, Salvo Pogliese, ha disposto la chiusura delle scuole e di ogni attività, eccetto farmacie e negozi di alimentari e generi di prima necessità, fino alle 24. Chiusi anche molti degli uffici regionali. Dello stato dei tombini e della manutenzione insufficiente, in città parlano i fiumi di fango. Della zona dell’aeroporto, di Santa Maria Goretti e del campo di rugby inondato a ogni pioggia, parlano decenni di disastri più che annunciati.
Ai cittadini oggi si chiede prudenza e li si invita a restare a casa. Loro si stringono attorno ai social che è piazza nuova in un periodo di distanziamento. Smettono addirittura di litigare sui vaccini, allentano persino quelli della “dittatura sanitaria”, e condividono consigli, informazioni su quali vie percorrere e quali evitare, perché in molti si rimetteranno in auto per raggiungere il posto di lavoro. Poi ci sono quelli che un’auto non ce l’hanno e quelli che non hanno nemmeno una casa. Ci sono quegli altri che magari stanno sfidando il mare grosso. Sono 367, in un barcone, i disperati per cui Medici senza frontiere, lunedì lancia un sos chiedendo un porto sicuro.
Qualcuno vuole silenzio. Ma a che serve il silenzio? A rispettare i morti, certamente. È possibile però che le domande possano servire a rispettare i vivi, piuttosto. E allora forse varrebbe la pena di metterne in fila qualcuna.
Cosa si è fatto per mitigare il rischio di finire con un territorio spappolato e ridotto a un mucchio di briciole? Che sia un paese fragile il nostro è fuori di dubbio. Era il 1974, quando la Commissione De Marchi definiva il dissesto idrogeologico come l’insieme di “quei processi che vanno dalle erosioni contenute e lente, alle forme più consistenti della degradazione superficiale e sottosuperficiale dei versanti, fino alle forme imponenti e gravi delle frane”. La relazione sollevava il problema, ma non si risparmiava e dava la soluzione. A leggerlo oggi, quel testo, ci dice cosa non sia stato fatto: la difesa del suolo è “attività di conservazione dinamica del territorio che va considerato nella sua continua evoluzione per cause di natura fisica e antropica”, è preservazione e salvaguardia da quelle che – negli anni Settanta – erano definite “cause straordinarie di aggressione dovute alle acque meteoriche, fluviali e marine o di altri fattori meteorici”.
Il cambiamento climatico ha modificato temperature ed eventi atmosferici, certamente; ha aggiunto nuovi e più gravi fattori di rischio su un suolo devastato da anni di incuria, di abusi e di condoni, innegabilmente. Anita Astuto, responsabile energie clima di Legambiente Sicilia lo dice chiaro che non è più il momento di rimandare: “Si approvi subito un piano nazionale di adattamento al clima, come già hanno fatto gli altri paesi europei e si spronino i Comuni ad approvare i Piani d’azione per l’energia e il clima (PAESC) per rendere i nostri territori più resilienti agli eventi estremi che saranno sempre più intensi e frequenti.
“Mancano pochi giorni al G20 di Roma e alla COP26 di Glasgow, si dimostri che la vita delle persone e la tutela degli ecosistemi sono una priorità“. Punta il dito sui profitti, Gianfranco Zanna che presiede Legambiente Sicilia e richiama Stato e Regione, ciascuno alle proprie responsabilità. È tempo di transizione ecologica, non si può più semplificare o abbozzare. Si contano dall’inizio del 2020 ad oggi circa 66 nubifragi, il 22 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’Osservatorio Cittàclima di Legambiente stima 946 fenomeni estremi dal 2010 alla fine di Ottobre 2020, con danni nel territorio: 416 casi di allagamenti da piogge intense e 39 di danni provocati da prolungati periodi di siccità e temperature estreme, 257 eventi con danni causati da trombe d’aria, 35 frane causate da piogge intense e 118 eventi causati da esondazioni fluviali.
Siamo ben oltre la fase delle semplici previsioni. Che il Mediterraneo sia già un “hot spot” del cambiamento climatico lo dicono gli scienziati da tempo. Parlano di quella zona come “una delle aree più sensibili e prevedibilmente soggette alle conseguenze del climate change, per via dell’aumento della temperatura e della diminuzione delle precipitazioni, che potrebbe provocare conseguenze imprevedibili nel rapporto tra temperatura dei mari, venti, precipitazioni e fulmini”. La Sicilia ne fa le spese in queste ore.
Laura Cassarà è un’ingegnera che vive e lavora a Catania e che Alley ha raggiunto per raccontare cosa accade: “La città di pietra rimane, con qualche ammaccatura. È la città di carne che non si riprende, perché è bello dire che comunque le cantoniere della vita Etnea e le basole di lava che lastricano le strade restano. Ma i danni incalcolabili alle cose private? Ai negozi, alle merci, ai mezzi di trasporto, agli apprestamenti domestici, alle coltivazioni, alle derrate? Per non parlare delle vite umane perse. Ecco, cominciamo da questo: quanto siamo disposti singolarmente a una esercitazione quasi militare sui rischi e sulle misure di mitigazione? Da anni mi occupo proprio di rischi naturali: zero, ecco quanto siamo disposti. Passata la tempesta, nessuno ne vorrà più sapere e aspetterà la prossima con il fatalismo che contraddistingue i siciliani“.
Stiamo facendo abbastanza? Probabilmente no. È del 2019 l’istituzione di una cabina di regia cui spetterebbe l’attività di verifica sugli interventi connessi alla vulnerabilità. Nel 2014 il governo Renzi aveva istituito un’unità di missione presso la Presidenza del Consiglio – poi soppressa dal primo governo Conte – chiamata Italia Sicura. Avrebbe dovuto curare, coordinare, pianificare e gestire il rischio idrogeologico in Italia, di concerto con le Regioni. Il fenomeno interessa quasi l’80 per cento del territorio italiano, lo sappiamo bene e a spese nostre. In tre anni, quella struttura risulta aver investito 9 miliardi di euro e aperto 1.334 cantieri.
Dal 2018 è il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare ad occuparsi della questione. I motivi della soppressione di quell’unità sembrerebbero legati – a dire del ministro Costa intervistato dal quotidiano la Repubblica il 24 luglio 2020 – ai costi di gestione, sintetizzati dapprima in una cifra intorno ai 900 milioni di euro, poi ridimensionata in 900 mila euro – a correzione di quello che veniva definito un refuso – dal Sottosegretario di Stato per l’Ambiente e la tutela del territorio e del mare Roberto Morassut, nel corso di una recente interpellanza. La chiusura di quella missione comunque costò il blocco di 12 miliardi di euro di investimenti già programmati, per interventi su infrastrutture, scuole e territori a rischio.
Alla pluralità dei programmi obiettivo oggi fanno capo il Dipartimento della protezione civile, Ministero dell’Ambiente, quello delle Politiche agricole, alimentari e forestali e Ministero delle infrastrutture. Sono stati previsti fondi per circa 10,9 miliardi di euro per il triennio 2019-2021 ed è stato individuato ciò che è immediatamente cantierabile per 315,1 milioni di euro. Del febbraio del 2019 è il Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale che distingue ambiti e misure di intervento. Lo stato dell’arte è nero su bianco nella Relazione concernente lo stato di avanzamento aggiornata a maggio 2021 che definisce il quadro delle esigenze.
Il Piano stralcio 2019 del Piano nazionale per la mitigazione mette in fila 39 interventi, già inseriti nelle proposte di programma con un fabbisogno totale di oltre 78 milioni di euro, e il Piano 2020 ne aggiunge altri 16, per più di 79 milioni di euro che vengono catalogati come interventi rapidamente attivabili. La Sicilia, però, compare per due sole opere con uno stanziamento di quasi 5 milioni di euro, così la Calabria che sta in fondo alla classifica in cui ad avere la meglio sono il Piemonte che potrà contare su 12 cantieri, la Toscana e Lombardia con 8, mentre va peggio alla Basilicata per cui è in programma un solo intervento.
Nel frattempo l’isola affonda, le sue strade si spaccano sferzate dall’acqua, i treni ci mettono più di 10 ore per collegare la costa est a quella ovest e il presidente della regione da anni non perde occasione per rilanciare il ponte sullo stretto. Musumeci dice che nelle prossime ore si delibererà lo stato di emergenza e si chiederà lo stato di calamità.
C’è da domandarsi, quando a sbriciolarsi sotto la pioggia è una città come Catania che per millenni ha resistito al vulcano e alle sue eruzioni, se ciò non sia il segno tangibile che poco o niente è stato fatto, malgrado quelle risorse, nonostante le cabine di regia e in barba alle buone intenzioni. L’Anci del resto dà conto di una stima dell’Agenzia per la coesione territoriale, secondo la quale dal 2007 a oggi le regioni Italiane avrebbero speso il 20% degli 1,6 miliardi di fondi comunitari messi a disposizione. Nel mentre il rapporto biennale dell’ISPRA sulla situazione del dissesto idrogeologico accende di rosso 50mila kmq del nostro territorio, in cui risiedono oltre un milione di persone, e conta più del 90% dei comuni italiani, classificando circa il 17% della penisola come area a maggiore pericolosità per frane e alluvioni.
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