World Press Photo: vince una foto che parla, canta e danza

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La gente canta slogan mentre un giovane recita una poesia di protesta durante una manifestazione contro il governo a Khartum, capitale del Sudan, il 19 giugno 2019 © Yasuyoshi Chiba / AFP

In questi giorni di segregazione, ossessionati da una minaccia impalpabile e dai rovelli della mente, che sovente s’inceppa e gira a vuoto, il ripresentarsi, nel tempo previsto, di una ricorrenza può essere un’esperienza rinfrancante.

È con questo sentimento infatti che ho accolto l’annuncio del World Press Photo 2020, il più rinomato e universalmente noto premio internazionale di fotogiornalismo, assegnato puntualmente, come ogni aprile dal 1955 (con l’eccezione di soli 4 anni: 1958, ’60, ’70 e ’71), dall’olandese World Press Photo Foundation, ente no profit con sede ad Amsterdam. Il vincitore di quest’anno è il fotografo giapponese Yasuyoshi Chiba dell’agenzia AFP (Agence France Presse) con la foto Straight voice scattata a Khartoum, la capitale del Sudan, il 19 giugno 2019.

Se guardiamo questa foto attraverso il nuovo, angusto punto di vista che abbiamo maturato in questi due mesi scarsi di pandemia e conseguente quarantena (pardon, lockdown: si sa che, in inglese, è tutta un’altra cosa…), l’effetto può essere sorprendente: un assembramento di persone che si accalcano le une vicino alle altre, in piena notte e senza protezioni! Che impensabile inconsapevolezza su quei volti, la cui attenzione è calamitata dal quel giovane con la camicia azzurra che sta cantando a piena voce, la bocca spalancata e la mano destra all’altezza del cuore, e sta infiammando tutti gli altri con quello che dice, con l’energia che ci mette e il coraggio che lo anima.

È una scena dal Sudan uscito da pochi mesi dal trentennale dominio di Omar al-Bashir, deposto da un colpo di stato militare l’11 aprile 2019: la caduta del dittatore che pareva eterno non ha però pacificato il paese, la cui popolazione reclama ora a gran voce i propri diritti, esasperata dal trentennale monopolio del potere da parte dell’esercito e da una grave crisi economica, esplosa a fine dicembre 2018 con l’aumento del prezzo del pane, causa scatenante l’escalation di proteste che ha determinato il rovesciamento del regime.

Come Yasuyoshi Chiba racconta, illustrando le circostanze in cui ha scattato l’immagine, un paio di settimane prima gruppi militari avevano represso l’ennesima, pacifica dimostrazione, aprendo il fuoco sulla folla e uccidendo un centinaio di persone: l’unanime condanna della comunità internazionale aveva isolato il nuovo regime di Karthoum e le proteste non si erano fermate. Il governo era ricorso ad armi meno cruente, imponendo continui blackout e bloccando internet, ma le agitazioni erano continuate: la notte del 19 aprile i leader della protesta avevano organizzato una riunione di coordinamento in un quartiere residenziale, immerso nel buio per la mancanza di energia elettrica.

Chiba con altri fotoreporter si reca sul posto per documentare e resta colpito da quel che accade: all’improvviso le persone incominciano a battere le mani, nell’oscurità si alzano in cerchio i telefonini a illuminare un giovane, Mohamed è il suo nome, che inizia a recitare una famosa poesia di protesta e ne improvvisa un’altra. La parola che continuamente ricorre è “thawra”, rivoluzione in lingua araba.

Chiba racconta di essere stato catturato dall’espressione e l’energia di Mohamed, che lo hanno costretto a concentrarsi su di lui: il ragazzo era diventato il portavoce, incarnava probabilmente la figura tipicamente africana del cantore, colui che narra alla propria gente i miti e le leggende che ne fondano l’identità, nutrendo con le tradizioni la memoria dei singoli e della collettività. Il suo canto infatti è una poesia tradizionale di protesta, ma a questa affianca un testo nuovo, improvvisato per l’occasione: la tradizione non si limita a conservare e tramandare, fonda anche la possibilità di guardare con libertà al futuro, di immaginarlo e progettarlo.

È questo aspetto che ha affascinato il reporter nipponico: una protesta di piazza che ricorre alla parola e al canto, anziché alla violenza, non è uno spettacolo consueto… E quella notte di giugno illuminata dai cellulari non era consueta, si è rivelata infatti portatrice di una luce profetica: il 17 agosto successivo è stato firmato un accordo con i militari, che hanno accettato di condividere il potere con la comunità civile, aprendo una nuova prospettiva sul futuro del Sudan.

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Yasuyoshi Chiba. © Shiggy Yoshida

La foto di Yasuyoshi Chiba ha saputo fermare un momento emblematico con un linguaggio potente per concisione e rigore: i due giovani in primo piano di profilo ai lati di Mohamed lo incorniciano e sottolineano le linee diagonali dell’inquadratura, che si incontrano esattamente nella sua bocca, la sorgente della parola, che si irradia così dal cuore dell’immagine. Nella parte alta sullo sfondo si assiepano le luci dei telefonini, dando così profondità alla scena, ma anche questo aspetto può rivelare un significato ulteriore, più profondo: la luce è dietro la parola, la segue, ma è la voce che apre la strada…

Anche le mani giocano un ruolo importante in questo scatto: da quella sul petto di Mohamed, a quelle dei ragazzi attorno a lui, alle due sfocate sul bordo di sinistra della foto; mani colte dall’obiettivo mentre si preparano a battere l’una sull’altra, ritmando il canto.

Questi elementi formali su cui indugio non sono stati ovviamente pensati dal fotografo prima di scattare: il reporter è sul campo, deve agire velocemente, decidere in frazioni di secondo, ma, se è fotografo di razza, sente la foto prima di scattarla e può contare sulla sua maestria inconsapevole, depositata nell’inconscio del mestiere, che suggerisce all’occhio e guida la mano. Almeno ogni tanto.

Si dice che la foto è un’arte silenziosa, vero: eppure questa foto parla, canta e danza; e ci trascina con lei.

In questo tempo di chiusura forzata dentro le nostre case, il rischio che corriamo è di rinchiuderci a doppia mandata in un ulteriore lockdown, non salutare ma pericoloso: quello che ci porta a guardare, parlare, pensare solo ed esclusivamente di coronavirus, vaccini, fase 1 e fase 2, rischi, problemi, paure di questa congiuntura.

È normale, ovvio, per molti aspetti anche giusto che sia così, ma la voce da Khartoum che si alza da questa foto può essere per noi un grido di risveglio, ricordandoci che c’è anche altro, tanto altro: la realtà va avanti, le vicende della cronaca diventano velocemente storia e non aspettano che gli dedichiamo un po’ d’attenzione, si impongono, con la nuda verità dei fatti. E di questo dobbiamo tener conto.