Di violenza sulle donne si fa un gran parlare, e di buono c’è che il fenomeno, che riguarda nel mondo una donna su tre (dati Onu), è oramai all’attenzione della politica italiana e della societa’ civile. Con conseguenti provvedimenti ad hoc, finanziamenti per le azioni di contrasto, dibattiti e convegni per cambiare alla base la mentalità. Ma c’è un aspetto peculiare di questa piaga di cui ancora non si parla abbastanza. Ed è quello, imponente, della violenza sulle donne migranti. Donne che vengono stuprate, mutilate, costrette a matrimoni precoci. Che subiscono la violenza e stentato a raccontarla, anche perché nel loro bagaglio personale non hanno gli strumenti culturali per denunciare. Il fenomeno della violenza riguarda, come emerge dalla ricerca quali-quantitativa di Fondazione L’Albero della Vita e Fondazione Ismu, gran parte delle donne migranti, e la quasi totalità delle donne provenienti dall’Africa che molto spesso hanno subito durante il viaggio qualche forma di violenza. Serve dunque più conoscenza, consapevolezza e competenza specifica sul tema della violenza di genere su donne rifugiate e richiedenti asilo in Italia e altri Paesi Europei. Un fenomeno sottovalutato con importanti conseguenze anche sui minori.
La ricerca finanziata dalla Ue coinvolge 5 Paesi tra cui l’Italia
L’indagine è stata svolta all’interno del progetto Swim– Safe women in migration, finanziato dal programma Diritti, uguaglianza e cittadinanza dell’Unione Europea (2014-2020). L’indagine è stata rivolta a operatori e gestori di centri di accoglienza presenti nei 5 Paesi coinvolti nel progetto stesso (Italia, Francia, Gran Bretagna, Svezia e Romania). “Il progetto Swim – dichiara Ivano Abbruzzi, presidente di Fondazione L’Albero della Vita – intende supportare le donne durante tutto il percorso migratorio, soggetti maggiormente esposti alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento, alla discriminazione e all’abuso, specialmente quando viaggiano da sole. Tali violenze possono verificarsi in diverse fasi del percorso migratorio: a volte già nel paese di origine, altre volte durante il viaggio o anche una volta arrivate in Europa”, prosegue Abbruzzi. “Le donne migranti – aggiunge Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu – soprattutto quelle che viaggiano da sole nella tratta libica, corrono maggiormente i rischi e i pericoli di subire violenze. Ad oggi le donne migranti che arrivano via mare rappresentano il 9,9% dei migranti sbarcati, ma il fenomeno delle violenze sta assumendo dimensioni importanti. Come emerge dalla ricerca che abbiamo condotto nell’ambito del Progetto Swim, secondo gli operatori del sistema di accoglienza dei Paesi coinvolti, quasi la totalità delle donne migranti provenienti dall’Africa hanno nel loro viaggio subito una qualche forma di violenza”.
Emergono difficoltà nella costruzione del rapporto di fiducia operatori-migranti
La ricerca quantitativa, condotta da Emanuela Bonini ricercatrice di Fondazione Ismu, si è basata su un campione di 437 operatori (70% donne) di un’età compresa tra i 33 e i 45 anni (35%) in possesso, per il 57%, di un titolo accademico, soprattutto nell’ambito educativo (in Italia il 39% degli intervistati ha un diploma di istruzione secondaria superiore). Il primo aspetto che emerge è la necessaria relazione di fiducia che si instaura tra gli operatori e le donne migranti. I professionisti del sistema di accoglienza dei Paesi coinvolti nel progetto Swim dichiarano, infatti, che le donne migranti, dopo aver instaurato un rapporto di fiducia, parlano più facilmente della loro vita nel Paese di origine, più di quanto riescano a parlare del loro viaggio, evidenziando l’aspetto doloroso di tale esperienza e confermando quanto sta emergendo sempre più frequentemente a proposito delle violenze che i migranti, e le donne nello specifico, vivono durante il tragitto, in particolare nel passaggio dalla Libia.
Le difficoltà maggiori nella costruzione della relazione con le donne migranti vittime di violenza vengono identificate nella mancanza di competenza specifica sul tema delle violenze di genere e in particolare sulla gestione dei casi complessi (rispettivamente: Italia 89%, Francia 85%, Gran Bretagna 91%, Svezia 75%). La costruzione di una relazione di fiducia richiede quindi tempi molto lunghi, anche a causa della distanza culturale percepita sia dalle operatrici che dagli operatori (rispettivamente: Italia 41%, Francia 46%, Gran Bretagna 60%, Svezia 42%) e delle differenze nelle esperienze di vita. Nonostante ciò i professionisti dei sistemi di accoglienza vivono una forte empatia con le donne migranti con cui lavorano, per questo non è così difficile per loro capire quello che pensano, (rispettivamente: Italia 43%, Francia 35%, Gran Bretagna 65%, Svezia 66%), sentono (rispettivamente: Italia 50%, Francia 40%, Gran Bretagna 61%, Svezia 73%), o comprendere le scelte che fanno. La maggior parte delle donne che si è interfacciata con gli operatori intervistati ha subito forme multiple di violenza agite da uomini conosciuti e trafficanti nel Paese di origine o durante il viaggio.
Secondo le operatrici italiane gli autori delle violenze sono i trafficanti
La violenza fisica, sessuale e psicologica è presente in maniera significativa in tutti i Paesi. I casi di tortura sono stati rilevati soprattutto in Francia (49%) e in Italia (38%), mentre casi di mutilazioni genitali e matrimoni forzati sono frequentemente rilevati dagli operatori francesi; ciò dipende in parte dal paese di provenienza delle donne richiedenti asilo e rifugiate, dove queste specifiche forme di violenza contro le donne sono maggiormente attuate. Le violenze di genere legate all’orientamento sessuale dei migranti sono rilevate in misura più contenuta particolarmente in Italia (10%) e in Svezia (18%). Le differenti forme di violenza sono perpetrate più frequentemente da uomini che sono vicini alle donne migranti e che fanno parte del proprio nucleo familiare, soprattutto per quanto rilevato dalle operatrici francesi e svedesi ed in misura leggermente minore dalle britanniche. Per le operatrici italiane invece i soggetti principali delle violenze sono i trafficanti. I familiari sono riconosciuti come responsabili di “offrire” ai trafficanti le donne nel percorso migratorio in maniera rilevante in Francia e Svezia, meno in Italia. In base alle testimonianze delle operatrici di tutti questi paesi coinvolti le violenze hanno luogo prevalentemente nel Paese di origine, mentre il 28% delle operatrici italiane individua nel viaggio il momento in cui le donne migranti risultano essere più a rischio (62%). Questo dipende almeno in una certa misura dalle tratte migratorie utilizzate dalle donne migranti per arrivare nei diversi paesi coinvolti nel progetto. Complessivamente gli operatori di tutti i Paesi pensano che le donne migranti subiscano violenze più frequentemente di quanto emerge. Gli operatori italiani (82%) pensano che le donne migranti provengano da un paese la cui cultura prevede la violenza di genere, mentre per gli operatori degli altri Paesi l’accordo nei confronti di questo tipo di argomentazione scende intorno al 50% o addirittura al 30% per gli operatori svedesi. Inoltre, nella percezione degli operatori le donne migranti sembrano essere abituate a livelli significativi di violenza di genere, mentre tutti gli operatori concordano sul fatto che il fenomeno sia sottostimato.
Emergono differenze tra i Paesi europei nella gestione centri di accoglienza
Nell’ambito invece della ricerca qualitativa del Progetto Swim, realizzata da Lia Lombardi, ricercatrice di Fondazione Ismu, sono state somministrate 50 interviste semi-strutturate ai gestori dei centri di accoglienza dei paesi partner di progetto (8 in Gran Bretagna, 10 in Svezia, 10 in Francia, 5 in Romania, 17 in Italia). Uno dei principali obiettivi della ricerca qualitativa è stato quello di rilevare i bisogni formativi degli operatori rispetto alla violenza di genere verso le donne richiedenti asilo e rifugiate. Emergono differenze significative tra i paesi e i centri di accoglienza sia per quanto riguarda l’organizzazione e la gestione dei centri stessi sia rispetto all’erogazione dei servizi. Ad esempio le strutture in Gran Bretagna si configurano per l’accoglienza di persone migranti siriane facenti parte del programma di resettlement e per l’accoglienza di particolari gruppi di migranti particolarmente vulnerabili, come le donne. La Svezia mostra, una tipologia di accoglienza “diffusa” strutturata in appartamenti, centri di piccole dimensioni, hotel (9 su 10). Francia e Italia mostrano strutture simili, suddivise tra centri straordinari di accoglienza per richiedenti asilo (CAS per l’Italia e CPH – Centre Provisoire d’Hebergement – per la Francia) e strutture di reinsediamento per rifugiati/e, corrispondenti indicativamente allo Sprar italiano. Emerge inoltre una prevalenza di centri di grandi dimensioni in Francia (6/10) con un numero complessivo di 6.300 posti, in Italia (10/18) con un numero complessivo di circa 2.800 posti, in Romania (4/5) con un numero complessivo di circa 1.000 posti disponibili.
Il progetto Swim è implementato da una partnership composta da sette Organizzazioni tra cui Fondazione L’Albero della Vita (coordinatore di progetto), Croce Rossa Italiana, Fondazione Ismu e Croce Rossa Britannica.