Lil Miquela, frangetta e visino impertinente, influencer di 19 anni con 1,4 milioni di followers su Instagram, ha lanciato una linea di abiti e bijoux, e ha già lavorato per Prada, Diesel, Moncler e Chanel.
Noonoouri è la blogger preferita da Dior, diciottenne parigina, già fotografata nel front-row della sfilata insieme alla fashion designer Maria Grazia Chiuri.
Margot, Zhi e Shdu, spettacolari modelle di varie etnie, sono le nuove testimonial nella campagna pubblicitaria di Balmain, perché come afferma lo stylist Olivier Rousteing che le ha fortemente volute, “incarnano la bellezza, lo stile rock ed un potere fiducioso”.
Cosa le accomuna? Non sono donne reali, bensì avatar in 3D: modelle e influencer generate al computer.
Il fenomeno degli avatar nel campo della moda è abbastanza recente, e tuttavia la sua prevista rapida diffusione – visto come i maggiori brand del fashion si stanno muovendo – è destinata a sollevare dibattiti sul fatto se sia giusto o meno che personaggi virtuali si sostituiscano a quelli reali. O sul concetto stesso di ‘reale’.
Ma come sono fatti?
Si tratta di prodotti digitali di grande realismo, personaggi dall’aspetto fisico accattivante ma allo stesso tempo con piccole imperfezioni che le rendono più vere, con un proprio branding costruito a tavolino: non solo bellezza e personalità ma anche valori e impegno sui temi sociali, e un efficace interazione con i follower, condividendo anche momenti di vita ‘vera’ come il dover passare in tintoria, fare i bagagli o eseguire la propria beauty routine quotidiana.
Per le aziende lavorare con gli avatar rappresenta un grande potenziale di crescita, perché oltre ad essere personalizzabili, non presentano tutte le implicazioni di tipo ‘umano’ che una modella, un testimonial o un influencer possono comportare: contratti, compensi, imprevisti personali, capricci e quant’altro. Gli avatar insomma permettono di diversificare i contenuti web, offrire esperienze, e nel contempo controllare il budget.
La ricetta vincente per arrivare bene sul mercato? Unire sapientemente ‘fantasy and facts’ (sogno e realtà).
Ai consumatori piacciono?
Le risposte da parte dei consumatori non si faranno attendere ma immaginiamo un grande riscontro da parte dei Millenials e della generazione Z, nata con il cellulare in mano: una larghissima fascia di consumatori che per le aziende rappresentano il vero mercato globale a cui rivolgersi per i prossimi anni.
E se il loro riscontro in termini di clic sarà soddisfacente per le aziende, tanto basterà.
Perché come ha dichiarato il fotografo inglese Cameron-James Wilson, creatore della modella-influencer di colore Shudu: “Se ti ‘influenza’ e ti comunica contenuti interessanti, perché formalizzarsi sul concetto di realtà?”
Ma quanto siamo veri noi?
Ma che significato ha il concetto di ‘realtà’ per noi? Quanto siamo ‘veri’, noi stessi? Quando sappiamo distinguere tra il nostro quotidiano reale e virtuale? Se la stretta di mano è ormai un clic su Linkedin, se le nostre emozioni si esauriscono in uno sfogo su Facebook, se percepiamo il nostro valore in funzione dei like o dei follower (magari comprati a pacchetti), se la nostra voce cede il posto ad un’applicazione chiamata Whatsapp?
Quanto siamo veri se siamo noi stessi ad appiattire la nostra unicità estetica a colpi di filtri su Instragram, fotoritocchi, ritocchi reali, tutte facce ormai tristemente (e talvolta ridicolmente) uguali?
Giochiamo e ci divertiamo a manipolare la nostra identità virtuale senza renderci conto di quanto essa stessa influisca sulla percezione di noi stessi e su aspettative che inconsapevolmente ci creiamo.
Un segnale preoccupante a è emerso da una ricerca condotta su scala mondiale da Mintel, secondo cui “I ragazzi fra i 16 e i 20 anni di età hanno una visione distorta della loro bellezza”. Vorrebbero una pelle priva di imperfezioni e credono che i selfie mostrati sui social dai loro beniamini ‘influencer’ rispecchino la realtà.” Fino ad arrivare a ricercare la chirurgia estetica proprio per assomigliare ai filtri che usano quotidianamente. Fenomeno davvero allarmante chiamato ‘Snapchat Dyspmorphia’.
Non scandalizziamoci quindi per gli avatar che ci assomigliano, ma per il fatto che siamo noi stessi che ci stiamo ‘avatarizzando’.
Cerchiamo allora di vivere di più come persone vere (non semplici ‘umani’), e soprattutto essere di riferimento per le nuove generazioni ormai inglobate nel web, offrendo qualcosa di potente che arrivi alla loro anima (forse l’unica cosa che manca all’avatar?): insegnar loro ad essere se stessi, relazionarsi fisicamente con gli altri, sapersi dare tempo, sapersi confrontare e imparare dalle sconfitte, per vivere la loro realtà reale-digitale con valori e principi stabili e duraturi, se glieli sapremo offrire.