Che cosa resta dei nostri viaggi?
Immagini nella memoria, probabilmente, ma quale? Quella digitale del nostro smartphone (o macchina fotografica) o la nostra memoria?
Vecchie questioni, visto che “specchio dotato di memoria” è un’antica e folgorante definizione della fotografia, che ci dice la sconvolgente novità determinata da questo dispositivo: finalmente, per la prima volta nella storia, era possibile fermare durevolmente su un supporto l’impronta del mondo come nata da sé, senza intervento dell’uomo; serbare la traccia, come appare ai nostri occhi, di qualunque aspetto, oggetto, cosa, luogo, persona attorno a noi, con una fedeltà e verità impensabili con qualsiasi altra tecnica basata sull’abilità della mano, fosse disegno o pittura.
Fin da subito la nuova macchina ottica e l’esperienza del viaggio si legarono in un binomio indissolubile, la fotografia di viaggio divenne uno dei generi principali di questa tecnologia e forma di espressione, stabilendo un nesso che è continuato nel tempo e si mantiene florido anche ai giorni nostri, se è vero che buona parte dei nostri profili sui vari social sono quasi sempre anche un diario visivo dei nostri viaggi.
Ma, tornando alla domanda iniziale, al di là di queste immagini cosa ci resta? E, altra domanda, queste foto, una volta postate, condivise, archiviate (forse), che fine fanno? Le riguardiamo, le frequentiamo ancora? Oppure sono troppe, non abbiamo tempo, nemmeno voglia, e le dimentichiamo, perdiamo, magari le cancelliamo (non tutte…) perché dobbiamo liberare spazio di memoria (digitale) sui nostri dispositivi, per potere ovviamente scattarne altre, tante altre, per, a loro volta, postarle, condividerle, archiviarle (forse), dimenticarle, cancellarle, eccetera eccetera, in un movimento continuo, ad anello, che ritorna su sé stesso.
Quindi fotografiamo per ricordare o per dimenticare? E fotografiamo quello che ci interessa, ci colpisce, ci affascina, magari ci turba o fotografiamo un po’ tutto, come capita capita, perché inconsciamente sappiamo che qualsiasi cosa, una volta fotografata, diventa necessariamente interessante, proprio perché ha conquistato lo statuto di immagine?
Eppure l’abbondanza dà sazietà e troppe immagini ci tolgono la voglia, ci schiacciano e alla fine ci impediscono il ricordo, anziché sollecitarlo. E quindi?
Certo non ho una risposta, ma una (modesta) proposta a partire dalla mia esperienza di questi giorni in quello che è certamente uno dei luoghi più belli di tutto il Nord Italia, vale a dire l’orrido dei Serrati o della val Taleggio, all’imbocco dell’omonima valle, che si innesta nella Val Brembana all’altezza di San Giovanni Bianco. Si tratta, per chi non lo conosca, di una stretta forra di circa 3 chilometri scavata dal torrente Enna, che ha inciso fortemente le scure rocce dolomitiche della zona, trasformando questo tratto in un aspro e verdeggiante canyon: numerose cascatelle e rivoli d’acqua precipitano dall’alto o sgorgano improvvisi in vari punti sulle sponde, levigando le rocce e creando una fitta e pittoresca serie di picchi e pinnacoli, torrette, grotte e anfratti, punteggiati da una vegetazione sorprendentemente tenace, capace di ritagliarsi i propri spazi anche in luoghi così dirupati.
Ebbene, ogni volta che mi trovo in Val Brembana, non riesco a evitare di ripassare per questa strada spettacolare e finisco irresistibilmente a scattare fotografie. Anche quest’anno è andata così, con una differenza però: questa volta, avendo con me anche il computer, mi sono imbattuto in quelle degli anni precedenti e le ho osservate con attenzione.
Ho ritrovato in alcune quasi le stesse inquadrature e scorci, ma ho anche notato le differenze: gli anni precedenti cercavo immagini descrittive, volevo fermare gli aspetti del paesaggio nel modo più completo ed esaustivo possibile, come fossero appunti per garantire la fedeltà del ricordo, mentre l’anno scorso volevo rendere piuttosto le sensazioni, cosa si provi a essere lì, mentre si cammina nella gola con sopra la testa dei ritagli di cielo che si aprono tra i massi soprastanti, umidi e ricoperti di muschio, talvolta franosi, ascoltando il rumore e godendo la brezza delle acque.
Quest’anno la mia attenzione è stata invece catturata da un aspetto su cui non avevo mai riflettuto, vale a dire l’esistenza di una piccola centrale elettrica alimentata dalla forza delle acque. Come mai non ci avevo mai fatto caso o, meglio, pur notandola non avevo mai ritenuto questa presenza degna d’interesse? Probabilmente perché risentivo anch’io dell’idea ingenua, assolutamente artificiale ma molto diffusa nella nostra cultura, di una ipotetica natura indipendente e separata dall’uomo, che paradossalmente noi uomini possiamo però chissà come guardare come se noi non esistessimo; mentre siamo di fronte a questa chimerica “natura in sé”, ovviamente soffermarsi e addirittura fotografare una costruzione, a maggior ragione industriale come una centrale, non può che essere una profanazione: ecco quindi il motivo del perché io mi sia interessato solo ora, dopo tanti anni, al modo in cui l’edificio e i suoi annessi si fondono armonicamente con il paesaggio di rocce e acque, come se fossero compagni da tempo immemorabile.
Forse direte che si tratta di piccole differenze quelle di cui vi ho raccontato, eppure si tratta di sintomi che rimandano a motivazioni profonde, inconsce ovviamente, ma ben presenti, anzi tanto più presenti quanto più inconsapevoli: non le avvertiamo, ma sono loro a telecomandarci, suggerendoci cosa e come fotografare e cosa invece trascurare.
Nei nostri viaggi fotografici potremmo provare perciò a comportarci in un modo diverso, pensando quella infinitesima porzione dell’iconosfera (il mondo di immagini che ci avvolge e nel quale viviamo) che alimentiamo con le nostre immagini come un ecosistema, un organismo vivente, perché quelle immagini le abbiamo “create” noi, e dunque ci riguardano, non dovrebbero lasciarci indifferenti, visto che dietro ognuna di esse c’è un nostro gesto. Ecco, quanto più quel gesto di scattare diventerà un atto voluto, la realizzazione di una decisione anziché un riflesso meccanico, un istinto, un tick del nostro dito, tanto più le immagini prodotte acquisteranno di peso e diminuiranno di numero, rientrando così in una misura più umanamente accettabile e manipolabile, e si aprirà la possibilità di risentirle nostre, di lasciare che risuoni in loro il bisogno che le genera: nutrire la nostra memoria, accompagnarci nel nostro cammino.
La vacanza da questo punto di vista può essere un momento propizio, soprattutto se ci capita di trascorrerne almeno una parte in luoghi che conosciamo, luoghi che sentiamo nostri: qui la sollecitazione a scattare compulsivamente dovrebbe essere meno urgente, essendoci noto molto di quel che ci circonda, e si possono innescare facilmente i ricordi – pensieri, emozioni, semplici sensazioni. Si spalanca così un mondo e si apre la strada a un dialogo con noi stessi (naturalmente se lo accettiamo): riaffiorano le immagini degli anni precedenti e, in questo caso, che siano fotografie o immagini mentali funzionano allo stesso modo, le vacanze trascorse risuonano in quella attuale e possono condurci per percorsi inaspettati.