Israele, la vera innovazione da importare è la poliedricità

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La “nazione delle startup” sta crescendo e ora vuole essere chiamata la “nazione delle scaleup”, ossia di quelle startup che hanno trovato la loro strada e gli investimenti e si strutturano sempre più come società mature. Israele sta passando dall’adolescenza alla giovinezza nel vivere la propria innovazione tecnologica e lo si respira in particolare modo a Tel Aviv, dove le idee incontrano i capitali che arrivano da tutto il mondo.

E ne è stata una dimostrazione l’edizione di questa settimana di EcoMotion, l’evento dedicato alle startup dell’automotive. Il format è semplice: un hangar pieno di banchetti con cartellone di presentazione della startup, schermo per proiettare video dimostrativi e prototipi e chip da vedere dal vivo. E se giri fra gli startupper incontri il neolaureato con l’idea naïf che si regge sul volontariato nella raccolta dati o il quarantenne alla quinta startup in vent’anni, con un round di investimento da 40 milioni. Nessun cliché quindi fra chi ha idee innovative. E nessun cliché neanche nelle strade, nei bar, negli uffici.

20180524_113028Perché Tel Aviv è la città dove puoi essere ucraino e israeliano allo stesso tempo, puoi essere ebreo e gay, puoi essere militare e startupper (appunto), puoi essere studentessa e addetta alla sicurezza in aeroporto, puoi essere israeliana e pacifista. Tel Aviv è una città in cui puoi essere poliedrico, perché a definirti non esiste solo un aggettivo (e non stiamo qui a ripercorrere tutte le ragioni storico-culturali che hanno portato a questo).

20180523_172056E questo ti apre a un mondo di opportunità. Gil Devora, fondatore di The Floor (uno spazio in cui coabitano multinazionali con interessi in Israele da Intesa SanPaolo a Intel, da Kpmg a Hsbc), lo ripete sempre al figlio 13: “puoi essere ciò che vuoi” e gli dà le ali per volare oltre all’esempio. Lui che con le idee ha fatto i soldi e compra auto d’epoca su Ebay facendosele ricapitare dagli Stati Uniti.

20180524_113753Una lezione importante, quella della libertà di essere, per noi italiani che ci definiamo sempre a una dimensione: italiano, gay, giornalista, sardo, cattolico, liberista, femminista e così via. Quanto ci perdiamo per strada di quello che siamo? E quanto ci sentiamo a disagio nel ritrovarci a essere un puzzle composito? Tanto che abbiamo bisogno di trovare subito una nostra coerenza, per rientrare nei ranghi, in un cliché che sia rassicurante per noi è per gli altri.

Da Israele sicuramente dobbiamo importare tecnologia e innovazione, ma se riuscissimo anche ad importare la poliedricità dell’essere forse il Paese ne guadagnerebbe. E noi pure.