Ritrovare quel che è dentro di noi, in qualche stanza sepolta tra i ricordi di chi ci ha preceduto, è un privilegio raro, che quell’incantesimo di luce chiamato fotografia a volte concede, facendo per esempio apparire ai nostri occhi la Milano del tempo dei nostri nonni e padri.
Dobbiamo ringraziare un anziano signore ambrosiano, Nino De Pietro (Milano 1921), che per cinquant’anni ha dedicato uno sguardo accurato e indagatore alla sua città, attraversandola, esplorandola, corteggiandola, come in una vera storia d’amore che, come molte passioni, nasce clandestina: De Pietro infatti non è un professionista, appartiene alla folta schiera dei fotoamatori, categoria che molti intellettuali considerano e stimano, se possibile, ancor meno dei fotografi professionisti, ignorando quanto decisiva la loro azione sia stata per quella che dobbiamo abituarci a chiamare una necessaria ecologia della memoria. Della nostra memoria.
Fortunatamente non la pensano allo stesso modo gli Archivi Alinari di Firenze, che hanno accolto il vasto patrimonio donato da De Pietro di 5000 negativi e 900 vintage prints, vale a dire foto stampate dall’autore stesso, tra i circa 5.000.000 (avete letto bene: 5 milioni, foto più foto meno) di immagini che custodiscono, onorando la propria storia che, risalendo al 1852, li rende probabilmente il più antico archivio fotografico ancora attivo a livello mondiale.
Da una collaborazione tra gli Alinari e la milanese Fondazione Luciana Matalon – aperta nel 2000 come “spazio pensato appositamente per la promozione, lo studio e la valorizzazione dell’arte contemporanea”, nonché “crocevia internazionale di nuove idee, occasioni di arricchimento visivo, emotivo e mentale”-, nascono così la mostra Schegge di periferie: il Neorealismo a Milano. Fotografie di Nino de Pietro e il relativo catalogo, edito da Fratelli Alinari. Fondazione per la storia della fotografia.
Nei locali di Foro Buonaparte, sede della Fondazione, sono esposte circa 70 stampe fotografiche, per la maggior parte bianco e nero ma anche colore, che vanno dalla fine degli anni ’40 agli anni ’90, con un paio di scatti dei primi anni del nostro millennio.
La selezione ci fa vedere il volto operoso e umile di Milano, segnata con asprezza dalle violenze della guerra – uno dei primi scatti, del 1948, mostra tre bambini che giocano allegri tra le macerie di una casa distrutta -, dando particolare attenzione agli amatissimi navigli, sulle cui sponde è commovente vedere le donne inginocchiate, intente a lavare i panni, in immagini del 1955. Sembrano passati secoli eppure lo scatto a colori del 1956, uno scorcio del vicolo dei Lavandai dove de Pietro aveva il suo laboratorio, mostra un dettaglio urbano che si conserva pressoché identico ancora oggi: i colori tenui della pellicola Kodak appaiono come sbiaditi al nostro occhio, abituato al colore saturo ed esasperato del digitale, e creano una sensazione strana, di vicinanza e lontananza al tempo stesso, che è una delle ragioni del fascino che la fotografia “antica” esercita su di noi.
L’occhio di De Pietro non è quello di un turista, non vediamo i monumenti celebri, Duomo Scala o Pinacoteca di Brera, ma i cortili delle case di ringhiera, le trattorie spartane, i barconi ormeggiati nei canali, gli stradoni di periferia dal fondo fangoso, dove rare figure si delineano appena sfocate dalla scighera (la nebbia in dialetto), un vecchio prete a passeggio; e ancora, la fiera di Senigallia con le lunghe distese di cose vecchie disposte sul marciapiede in caotici ammassi di oggetti disusati ed eterogenei – quando ancora a nessuno passava per la mente di esaltarsi per quel che poi si sarebbe chiamato vintage e modernariato -, un bambino seduto per terra sulla vasta e deserta, irriconoscibile piazza Abbiategrasso, il contrasto tra le ruote di legno di un carro rustico abbandonato e il moderno condominio di periferia alle sue spalle, in un’immagine che splendidamente sintetizza la divaricazione in atto in quegli anni, e particolarmente bruciante a Milano, tra l’antica civiltà agricola e l’incombente spinta della modernità.
Lo stile di reportage di de Pietro rientra in quel grande fenomeno di cultura che va sotto il nome di Neorealismo, grazie al quale cinema, fotografia, letteratura e pensiero critico incominciarono a portare uno sguardo nuovo, affamato di verità, sulle reali condizioni del paese, uscito dalle macerie fisiche e morali della guerra e impegnato in una grandiosa opera di ricostruzione, ma il nostro fotografo non si lascia irreggimentare da maglie formali troppo strette, è capace al contrario di mantenere una grande libertà di linguaggio e una sensibilità di stile che lo portano a costruire immagini eleganti, nitide, ben strutturate e sovente attraversate da un guizzo di umile poesia.
Sono immagini in compagnia delle quali è piacevole indugiare, come per colmare un nostro bisogno, che non è il nostalgico desiderio di fuggire il presente per riparare in territori di sogno: la realtà che de Pietro ci fa vedere non è certo idilliaca, ma ha in sé una sincerità, una corrispondenza tra apparenza e sostanza che abbiamo probabilmente dimenticato.
Mi piace concludere segnalando il recentissimo, importante annuncio del progetto “Archivi Fotografici” a cura di Fondazione Fiera Milano, AFIP (Associazione Italiana Fotografi Professionisti) International e Triennale di Milano che si prefigge di conservare, digitalizzare e rendere fruibili archivi fotografici altrimenti destinati alla dispersione e distruzione perché, come dice Giovanni Gastel presidente di AFIP, “la memoria produce futuro.”