Psychology and good life – letteralmente “Psicologia e viver bene” – è un nuovo corso attivato dall’Università di Yale per il 2018. Il 12 gennaio di quest’anno, a pochi giorni dall’apertura delle iscrizioni, gli studenti registrati erano 300. In soli tre giorni il numero è raddoppiato. Dopo altri tre si è arrivati a 1200, circa un quarto degli iscritti a Yale. In 316 anni di storia della prestigiosa università si tratta del corso con il maggior numero di iscritti, che supera il record di “Legge e psicologia” svoltosi nel 1992, come racconta un articolo del New York Times del 26 gennaio scorso “Yale’s Most Popular Class Ever: Happiness”.
Laurie Santos, professore di psicologia, insegna agli studenti come migliorare la propria vita, come procrastinare meno, rinnovare e rafforzare le relazioni, ad esempio attraverso atti di gentilezza, sviluppare un atteggiamento di gratitudine.
Di cosa ci parla questo articolo? La prima riflessione corre al concetto di felicità, un’eterna ricerca avvolta dal mistero (“Su quale treno della notte viaggerà?” si domandava Lucio Dalla). Ho l’impressione che la felicità rischi di trasformarsi in un ritornello vuoto, che se ne stia abusando, bistrattandola, scomponendola e ricomponendola in una visione lineare e meccanicistica della vita dove 2+2 fa quattro. “Felicità raggiunta – scrive Montale – agli occhi sei barlume che vacilla”. Non esistono psicoricette per la felicità. La si avvicina e la si definisce più facilmente con immagini, metafore e giochi di parole. “Felicità è una poesia di Rodari”, mi ha detto un giorno la mia amica Mirna.
Venendo agli studenti, mi chiedo con quale sofferenza alcuni di loro arrivino a varcare i cancelli dell’università. Viviamo nell’epoca dell’ansia, del pensiero rimuginante, della sindrome cognitivo-attentiva, del disturbo da deficit di attenzione e iperattività, dell’information overload, come abbiamo già detto altrove. Delle domande che si trasformano in ossessioni: dal “sarò abbastanza bello, bravo, intelligente?” al “sono felice?” (e torna alla mente Stuart Mill: “Domandatevi se siete felici o no, e non lo sarete più”). Siamo passati dal pensiero forte fatto di certezze a quello debole, direbbero Vattimo e Rovatti, frammentato, sdrucciolevole, scivoloso. Le verità sono mobili, tutto è sottoposto a interpretazione, gli orizzonti di senso temporalizzati. Eppure ci “aggrappiamo” ai pensieri. Un concetto chiave nella psicologia contemporanea è proprio quello di “fusione con i pensieri” e i più recenti approcci, tra questi la Mindfulness, invitano a stare nel presente, a sentire le emozioni e il corpo (partecipare consapevolmente alla vita), più che a pensare e a giudicare quanto ci stia capitando. Si moltiplicano gli studi sul rimuginio: pensiamo troppo, fino a non riuscire a fermarci, arrivando a confondere i pensieri – una rappresentazione – con la realtà.
Tornando a Yale, è importante tenere distinti felicità e “buon vivere”. La psicologia non offre la formula per la felicità, ma può aiutare a comprendere meglio se stessi e le proprie relazioni interpersonali, a vivere pienamente il qui ed ora. Molti studenti durante gli anni di studio si trovano ad attraversare situazioni, anche transitorie, di disagio psicologico: dubbi sulle proprie capacità, difficoltà a concentrarsi, ad affrontare gli esami universitari o a relazionarsi con i compagni di corso, manifestazioni di ansia eccessiva, senso di insicurezza o confusione.
Gli studi ci dicono anche che un numero importante di studenti arriva all’università con disturbi specifici, come ansia, depressione, abuso di sostanze. Secondo un report del 2016, a cura dello stesso Yale College Council, il 33% degli studenti si definisce “molto ansioso”, il 20% dice di essersi rivolto al servizio di supporto psicologico durante il percorso di studi. Va bene, direte, si tratta di Yale, un’università con accesso limitato a pochi selezionatissimi studenti, capaci di votarsi allo studio matto e disperatissimo, sofferenza leopardiana inclusa. Fino a che punto tali questioni riguardano anche le nostre università? Molto, a quanto pare. Secondo i risultati di una survey coordinata da Harvard e riguardante 21 paesi del mondo, Italia inclusa, il disagio psicologico è molto diffuso tra gli studenti universitari, al punto che uno su cinque (20.3%) presenterebbe un disturbo diagnosticabile. Nell’81% dei casi questo avrebbe avuto un esordio precedente all’immatricolazione e sarebbe un buon predittore dell’abbandono universitario, più dei disturbi ad esordio successivo.
Non sorprende, dunque, che la maggior parte delle università italiane abbia attivato centri di ascolto psicologico, sportelli di aiuto e servizi di consulenza rivolti agli studenti.
Può un corso universitario come quello della Santos innescare processi di consapevolezza e cambiamento? Una classe di 1200 studenti rappresenta una sfida a dir poco ardua (fanno sapere da Yale che difficilmente il corso sarà replicato il prossimo anno). Corsi simili realizzati in piccoli gruppi – attivati presso l’università in cui insegno – trovano un riscontro molto positivo e mirano a promuovere la capacità di trattarsi con gentilezza, di gestire le emozioni, di ascoltare e di lavorare nei gruppi, indispensabili tanto nello studio quanto nella vita lavorativa. Ulteriori ricerche potranno aiutarci a comprendere meglio le ricadute sul futuro accademico e professionale, ma che Yale si renda conto dei bisogni psicologici degli studenti rappresenta un cambiamento culturale di non poco conto. Le Università non possono chiudersi negli angusti confini della performance e devono tornare a pensarsi come luogo di educazione, dove le emozioni e le passioni contano. “I care” era il motto di Don Milani nelle scuola di Barbiana.
E’ compito dell’Università stimolare la capacità di osservare se stessi e il mondo da punti di vista diversi. Per questo mi sarebbe piaciuto essere seduta tra gli studenti della Butler University quando Vonnegut, nel maggio del 1996, pronunciò le seguenti parole:
“Mio zio Alex Vonnegut, un assicuratore che abitava al 5033 di North Pennsylvania Street, mi ha insegnato qualcosa di molto importante. Diceva che quando le cose stanno andando a gonfie vele bisogna rendersene conto. Parlava di occasioni molto semplici, non di grandi trionfi. Bere un bicchiere di limonata all’ombra di un albero, magari, o sentire il profumo di una panetteria, o andare a pesca, o sentire la musica che esce da una sala da concerti standosene fuori al buio, oppure, oserei dire, l’attimo dopo un bacio. Mi diceva che era importante, in quei momenti, dire ad alta voce “Cosa c’è di più bello di questo?” Zio Alex, che è sepolto a Crown Hill insieme a James Whitcomb Riley, mia sorella e i miei genitori, i miei nonni, i miei bisnonni e John Dilinger, pensava che fosse uno spreco terribile essere felici e non rendersene conto. E io la penso come lui”.