Ci sono molti modi di essere sostenibili, in tutti i campi, a partire da quello dell’ambiente e della società in cui si opera. Dopo decenni di annunci spesso, purtroppo, non seguiti da fatti, sembrano moltiplicarsi iniziative più serie, concrete, positive per il pianeta e per chi lo abita e soprattutto per le generazioni future. Sulla mancanza di “arrosto” dopo il fumo gli americani qualche anno fa hanno persino creato l’espressione “green washing”, che indica una sorta di “bagno verde” per darsi un aspetto diverso, ma solo in apparenza. Una vernice che viene via dopo pochi lavaggi, potremmo dire. Lo stesso potremmo dire della sostenibilità sociale e potremmo parlare di “social washing”. Cinque anni fa in Bangladesh oltre 1.100 persone, soprattutto donne, morirono nel crollo di una fabbrica tessile fatiscente che, si scoprì, produceva anche per aziende europee. Molti i proclami, le dichiarazioni indignate; molte meno le iniziative concrete; ancora meno le notizie verificabili sulle attuali condizioni di lavoro nelle fabbriche bengalesi e in quelle di altri Paesi come Pakistan, India, Vietnam e Cina, solo per citarne alcuni.
La notizia di questi giorni sul tema viene dalla Norvegia. Grazie a una partnership con l’Unicef, il fondo sovrano Norway Global Fund (o Government Pension Fund), istituito nel 1991 e che oggi vale circa mille miliardi di dollari (un trillione, come amano dire gli americani), si impegna a fare la differenza nel settore della moda, concentrandosi soprattutto sulla piaga del lavoro minorile ma anche su altri effetti negativi sulle vite dei bambini che il fashion system globale può avere.
Il primo appuntamento per discutere di come agire e di come finanziare eventuali iniziative congiunte è stato nei giorni scorsi a Ginevra: delle 30 aziende che il Norway Global Fund e l’Unicef avevano invitato, solo 10-15 hanno detto sì e solo tre di queste (H&M, Kering e Vf) hanno accettato che fosse divulgata la loro presenza. Ma è comunque un primo passo per affrontare la piaga del lavoro minorile: l’International Labor Organization dell’Onu stima che nel 2016 fossero 152 milioni i “child labourers” nel mondo: in altre parole, un bambino su dieci sul pianeta lavora per pochissimi soldi anziché giocare, andare a scuola, vivere.
Del nuovo corso ambientale fanno parte invece altre due iniziative: una è di ottobre, l’altra di pochi giorni fa. Anche in questo entrambe avviate fuori dall’Italia. Ma chissà, qualcuno potrebbe seguire il buon esempio persino nel nostro Paese. L’iniziativa di metà novembre viene a sua volta dalla Norvegia ed è particolarmente significativa perché si tratta del Paese europeo maggiormente dipendente dalle estrazioni di petrolio. Già nello scorso aprile il Governo aveva annunciato di voler rivoluzionare l’economia norvegese, scommettendo sulle rinnovabili e in quell’occasione presentò un libro bianco che delinea le strategie di sviluppo future del mondo dell’energia. Non per niente la Norvegia è già dal 2016 il Paese con più auto elettriche per popolazione. Protagonista pure del segnale arrivato il 16 novembre da Oslo è sempre il fondo sovrano Norway Global Fund o Government Pension Fund, che serve (anche) a sostenere la spesa pensionistica del Paese. Il fondo venderà partecipazioni nel settore oil and gas per 37 miliardi di dollari. Tra le partecipazioni più importanti del fondo ci sono quelle in Royal Dutch Shell, Exxon Mobil e BP. Certo, la decisione è motivata anche dall’andamento negativo dei titoli del settore energetico, ma si tratta comunque di una svolta non da poco.
L’altro segnale autenticamente verde era arrivato dalla Francia: in un’intervista al quotidiano Le Figaro, Jean-Laurent Bonnafé, director e chief executive officer (amministratore delegato) del colosso francese Bnp Paribas, aveva annunciato che la banca non finanzierà più gruppi specializzati nella produzione di petrolio e di gas ottenuti dal trattamento chimico degli scisti (shale e fracking). Vale per le attività in Nord America ma anche nel mare del Nord. Non solo: Bonnafé aveva aggiunto che Bnp Paribas prevede di erogare entro il 2020 circa 15 miliardi di euro nel finanziamento delle energie rinnovabili e di investire 100 milioni in aziende che producono batterie di nuova generazione o si dedicano in altri modi all’efficienza energetica. La banca parigina sta inoltre ritirandosi dal finanziamento di miniere di carbone e di impianti alimentati a carbone e sta prendendo le distanze dalle aziende, quotate e non, che non provano a diversificare l’approvvigionamento rispetto alle fonti fossili.
Tornando alla moda e alla sostenibilità sociale, Inditex (il colosso spagnolo che controlla, tra gli altri, Zara), ha appena annunciato una donazione di 2,3 milioni di euro a Médecins Sans Frontières per aiutare le operazioni della ong in sette Paesi.
Una rondine non fa primavera. Forse neanche due o tre. Ma l’ottimismo della ragione, anche economica, impone di credere a questi segnali e alla possibilità di essere davvero all’inizio di una rivoluzione sociale e verde.