Che cosa proviamo quando sappiamo che una persona soffre? Ci piacerebbe pensare di reagire sempre allo stesso modo: con attenzione e compassione, ma la realtà è che dipende.
Nei quotidiani di questi giorni, due articoli a distanza di appena qualche pagina mostrano quanto possa essere discriminante il sentimento della compassione. In una regione dell’India che si chiama Uttar Pradesh, a causa dei monsoni, sono morti 60 bambini solo negli ultimi 3 giorni. Sessanta bambini negli ultimi tre giorni, 1.414 dall’inizio dell’anno in soli due ospedali pediatrici. Non ne conosciamo i nomi, nessun giornale ha pubblicato le loro speranze e le loro storie, né quelle delle loro famiglie. Sono lontani, lontanissimi da noi.
Qualche pagina più avanti, la bella storia del reparto oncologico del Fatebenefratelli a Milano, dove una gestione fatta di cura e vicinanza da parte dell’equipe della dottoressa Gabriella Farina ha provocato il passaparola tra i pazienti, allungando le liste di attesa per una medicina fatta di competenza ma anche di umanità. Chissà se alcune delle 70 professioniste che lavorano in questo reparto hanno seguito i corsi della neonata Cattedra di Umanizzazione, aperta nel 2015 nel Dipartimento di Oncologia dell’Università Statale di Milano
Compassione significa “soffrire insieme”, e secondo le neuroscienze è una capacità innata e istintiva della specie umana: è quindi uno di quegli istinti a cui sembra essere legata la nostra sopravvivenza. Eppure riusciamo a “silenziarla” molto bene quando le cose che accadono ci sembrano distanti da noi: non solo fisicamente, ma anche per scarsa somiglianza con il “nostro mondo”.
Il New York Times ha definito “compassion gap” la nostra capacità di essere distanti, emotivamente e umanamente, anche da chi ci è per molti versi vicino. Come lo giustifichiamo? Daniel Goleman nei suoi libri sull’intelligenza emotiva cita più volte un noto studio che ha dimostrato che a renderci più o meno compassionevoli non sono le cose che vediamo, e nemmeno le storie che abbiamo appena ascoltato, ma la sensazione di “avere abbastanza tempo” per poterlo essere. Ed è col tempo che fa i conti lo staff della dottoressa Farina, che lavora sempre in overbooking. Ma ce la fa.