Tre buoni motivi per mettere insieme lavoro e felicità

fotozezza

“Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai, neanche per un giorno in tutta la tua vita”, ha detto Confucio. Eppure ci sembra strano domandarci se il nostro lavoro ci rende felici. Felicità e lavoro sono, nell’immaginario occidentale, aree diverse e spesso distanti nella nostra vita. Ne parleremo stasera al Festival Pergine Spettacolo Aperto: sul palco quattro sguardi molto originali provenienti dall’Europa: un architetto spagnolo che tratta “strategie sovversive urbane”, un filmmaker greco famoso per i suoi documentari sulla “gente normale”, una docente universitaria inglese “esperta di genere e automazione” e una scrittrice inglese che studia la relazione tra capitalismo e condizione femminile. A me il compito di moderare la conferenza-spettacolo e trovare punti di contatto tra i quattro esperti.
Per farlo, mi sono messa a studiare, e ho scoperto che:

1) Siamo mediamente più felici di quel che sembra, e non è necessariamente la ricchezza a farci sentire così. David Myers ed Ed Diener, due tra i più grandi esperti mondiali di felicità, hanno analizzato 1.000 ricerche sulla felicità, che raccoglievano dati su oltre un milione di persone nel mondo, ed è risultato è che ci sentiamo felici ad un livello 7 su una scala di 10. A renderci tali, più che la ricchezza monetaria, la sensazione di avere a disposizione delle opportunità per stare meglio e di essere “in controllo” della nostra vita.

2) Nonostante la si definisca come uno stato di massima soddisfazione dei bisogni, la felicità non è una condizione dell’avere, ma dell’essere. La parola “felicità” deriva infatti dal sanscrito fe- da cui il greco “feo” = produco, faccio essere, genero. Felici quindi, all’origine della definizione, coloro che generano e fanno essere. Coloro che danno, non che ricevono.

3) Cerchiamo istintivamente la felicità perché “serve” alla specie umana. La natura ce lo dimostra così: quando siamo felici in un modo che ci sorprende, il nostro cervello produce dopamina, un ormone che ci fa stare davvero molto bene. La natura ha anche stabilito, però, che non si può essere sempre felici, che quella verso la felicità deve essere una tensione. Ecco perché avviene in noi quello che gli psicologi chiamano un “tapis roulant edonistico”: dalla felicità all’infelicità e ritorno. Perché in questa oscillazione tra soddisfazione e insoddisfazione l’essere umano si muove ed evolve.

Ed ecco allora la domanda che farò ai miei esperti questa sera. Se è vero che la felicità non è uno stato ma un “movimento”, non è un “avere” ma un “essere” e un “produrre” e dipende più dal migliorarci che dall’accumulare ricchezze… non è forse, la felicità, il nuovo nome che potremmo aspirare a dare al lavoro dell’uomo nel terzo millennio?