Il mio bagno misura all’incirca un metro per due. Ma ha tutto ciò che serve: wc, bidet, lavandino, specchio, portasapone. Ho aggiunto, di mio, solo un raccoglitore per i libri (da sempre ne inizio due contemporaneamente, quello “da letto”, in cui di solito qualcuno muore nelle prime venti pagine, e quello “da bagno”, più impegnativo, da gustare poche pagine alla volta) e il caricabatteria per il cellulare. Vi starete chiedendo cosa c’entri con il titolo del Secondo Prima.
Ecco, in questa casa ci siamo trasferiti quando mia moglie era in dolce attesa per la prima volta. Correva il 2013. L’8 febbraio abbiamo preso definitivamente possesso dei nostri nuovi spazi. Una camera per noi, una per il pupo in arrivo (che poteva ospitarne due), un salone, una cucina, la cantina per i vini, il garage… e due bagni. Due. Uno grande per tutto il resto della famiglia, e poi quel bugigattolo che mi ha fatto scintillare gli occhi già la prima volta che l’ho visto.
Vedete, la razza umana si divide in due categorie: quelli che in bagno trascorrono un minuto, e in quel minuto espletano ogni necessità ivi comprese quelle di igiene intima (li chiameremo “i velocisti”) e quelli che sotto i venti minuti non lo considerano nemmeno “andare al bagno” e per i quali il soggiorno sulle ceramiche è un momento buono per coltivare hobby e passioni (li chiameremo “i riflessivi”).
Ecco, io sono un convinto riflessivo, per cui coltivavo tra me e me (mia moglie è una velocista, non avrebbe capito) grandi progetti per il bugigattolo. Pensavo, e non sto scherzando, di sistemarvi una di quelle moka elettriche, perché per un luogo di meditazione, il caffè “lento” prodotto dalla moka mi sembrava molto più adatto di uno di quelli sprint da cialda o capsula. Solo che i figli, in due anni, sono diventati tre (alla faccia della stanza per due). Francesco e Anna (in ordine di apparizione) sono nati che Alessandro non aveva nemmeno due anni.
Ora comincia la parte triste della storia, vi avviso. Ma come? Storia triste con tre nanetti, tra l’altro tutti belli e biondi, che girano per casa?
La tragedia inizia già prima di aprire la porta del mio amato bagno. Ex, anzi. Non ex amato, eh. E nemmeno ex bagno. Ex mio. Prima di tutto mi accerto che i tre nanetti siano impegnati in qualcosa che li appassiona. Disegno. Lego. Dvd. Dolci. Vale tutto, purché io li veda intenti e concentrati su altro da me. Allora mi avvicino alla porta con passo felpato, fischiettando indifferenza. Cerco di dissimulare persino nei pensieri: mi dico che non sto per entrare in bagno, talvolta dico ad alta voce che sto andando a comprare le sigarette (e non fumo). Perché “quelli” intercettano anche il pensiero, cosa credete? Solo dopo mi decido ad aprire la porta, senza fare il minimo rumore, i cardini li tengo sempre perfettamente oliati. Richiudo. Trattengo il respiro. Silenzio. Mi siedo. Silenzio. Ce l’ho fatta, penso. Allungo la mano verso il libro da bagno (è ancora lì, lo stesso dal 2013). Leggo un secondo.
È in quel momento che si alza il primo urlo. Dodicimila decibel, approssimando per difetto.
«Papààààààààà». Seguito da altre due voci, poi il tramestio dei passi concitati, il tonfo di un bambino che cade, il pianto del bambino caduto, le botte sulla porta degli altri due (non esiste pietà nel crudele gioco della molestia al papà in bagno). Chiudo gli occhi. Ripongo il libro. Mi hanno trovato. Un secondo e la porta si aprirà, e tre nanetti biondi si presenteranno in bagno, trovandomi con i pantaloni alle caviglie e lo sguardo perso. Eppure li accoglierò con un sorriso, e comincerò a leggere la favola, a giocare con la macchinina, ad ammirare il disegno… a seconda del giorno. E dell’umore. Loro.
Evviva i papà, quindi. Soprattutto se costretti a rinunciare al loro status di “riflessivi”. Per amore.