Essere giudice minorile e svolgere le relative funzioni in materia di adozione e di affidamento significa confrontarsi tutti i giorni con un ruolo che sa di divino, con l’esercizio del potere di sciogliere legami naturali, sia pure quando perniciosi, e di farne nascere altri, stretti e forti come sono di solito quelli familiari. Un ruolo difficile e delicato, che si può sostenere se si ha la piena coscienza del fine, che è fondamentalmente quello di assicurare ai bimbi, piccoli e grandi, relazioni durevoli e soddisfacenti. Un fine che invita al fare, all’azione, in favore di quei minori le cui vite transitano dal Tribunale per i minorenni chiedendo imperiosamente agli adulti protezione e aiuto, attenzione e cura.
Bambini trovati abbandonati in un cassonetto, bambini lasciati sul sagrato di una chiesa o in un prato, certo gesti spesso frutto di ignoranza e disperazione, fatti di cui talvolta si occupano la cronaca e i media suscitando anche indignazione, ma riuscendo poi a stimolare la generosità di molti; bambini nati in sindrome di astinenza da stupefacenti, bambini ricoverati in ospedale per fratture o peggio, bambini molestati quando non abusati, bambini privati di ogni attenzione al di là di qualche poppata, e poi bambini che assistono quotidianamente alle violenze fra i genitori, bambini privati di opportunità di socializzazione, bambini sballottati da una persona all’altra.
Questo e altro è la quotidianità di quanto si presenta agli occhi dei giudici minorili; per i quali operare in favore dei bambini significa più che mai, in particolare, sapersi porre alla loro altezza e leggere il mondo con i loro occhi, spesso smarriti, e i loro cuori, spesso confusi; significa saper prestare loro ascolto, cogliere la loro sofferenza, interpretare i loro bisogni, individuare i percorsi perché possa essere loro assicurato amore, che è affetto, cura, presenza, attenzione, gesti alla base di ogni legame positivo; perché il mondo dei bambini, quello che loro guardano e vivono, è soprattutto rappresentato dai legami, all’osservazione dei giudici minorili purtroppo legami che ci dovrebbero essere e che non ci sono, legami che dovrebbero essere costruttivi di un’esistenza adulta libera, dignitosa, rispettata, a sua volta favorente rapporti positivi e, chissà, in grado di dare un contributo, anche piccolo, al progresso comune; legami che invece sono fonte di sofferenza, di dolore, di privazioni, destrutturanti per una corretta formazione personale e sociale.
Si tratta di legami fondamentali, alla cui mancanza o alla cui dannosità può spesso riuscire a porre un qualche rimedio solo l’intervento del giudice, che ha il potere di sviluppare azioni di protezione a favore dei bambini quando coloro che naturalmente dovrebbero tutelarli e garantire i loro diritti sono assenti, incapaci o, peggio, autori di violenze.
È un intervento, quello del giudice, che richiede però una capacità specifica di comprendere i problemi e di muoversi alla ricerca delle soluzioni. Un intervento che si esprime con un lavoro paziente e complesso, che comporta capacità di dialogo, di apertura, di stimolo delle relazioni, di quelle buone relazioni che per affermarsi talvolta, contro le apparenze, hanno solo bisogno della valorizzazione di taluni aspetti dell’adulto, di una iniezione di fiducia oltre che della predisposizione di quanto può minimamente servire per affrancarsi, nel bisogno, dalle esigenze materiali.
Si tratta di un processo di educazione, di educazione degli adulti, ma anche dei minori, attraverso la giurisdizione; è però spesso richiesto, perché sia efficace, la predisposizione di strumenti che possono essere assicurati solo da altri, con un’azione sussidiaria, vicaria nei confronti dei bambini, che può integrare un affidamento familiare o, nei casi estremi, un’adozione. Il giudice può infatti solo disporre, creare le condizioni affinché questa azione possa svilupparsi e realizzarsi, azione in primo luogo orientata a mantenere i legami del bambino, ma non ad un prezzo per lui esistenzialmente non sostenibile.
Nella mia esperienza ho trovato disponibilità e solidarietà davvero straordinarie e spesso sorprendenti per generosità e capacità. Perché non basta sentirsi di voler accogliere, che è la base, bisogna anche essere in grado di reggere un peso quotidiano di cure, di attenzioni, di fatica, che i bambini ai quali ci si offre richiedono con forza, spesso con tutte le loro forze, forze assorbenti e anche molto esigenti e provocatrici. È una capacità che va ponderata con molta cura, anche questa da persone esperte, che la sappiano valutare con ampiezza e profondità di analisi, allo scopo di evitare delusioni cocenti e nuove sofferenze; e che richiede infatti l’assunzione di una prospettiva che ponga al centro i bisogni del bambino e non i desideri, o i sogni, degli adulti, desideri e sogni che possono portare a sottovalutare l’impegno e la responsabilità richiesti dalla genitorialità, sia essa quella temporanea e in qualche modo condivisa degli affidatari o quella stabile ed esclusiva degli adottanti, in particolare nella fase molto delicata dell’adolescenza. È un’esperienza che ha bisogno non solo del cuore, ma del coinvolgimento anche della mente, soprattutto all’avvio, e che ha un contenuto di accoglienza e di comunicazione sicuramente particolare, che deve fare i conti con la diversità dei bambini, piccoli, o grandicelli, o grandi, con la loro specialità, con la loro necessità di trovare continuità in una storia che è cominciata altrove e che il più delle volte è sconosciuta. È un compito gravoso, che richiede anche la disponibilità ad essere sostenuti, e di cui è consigliabile condividere i passi, anche quelli apparentemente meno impegnativi, con gruppi o associazioni di chi stia vivendo analoghe esperienze, per ampliare, approfondire e affinare le proprie competenze, mai colme quando riguardano espressioni di cura genitoriale fondamentali ben oltre la minore età.