Oggi è il Giorno della Memoria, per ricordare le vittime della Shoah, istituito dall’Assemblea Nazionale delle Nazioni Unite nel 2005. Quello che mi è rimasto appiccicato addosso dalla visita al campo di concentramento di Dachau e al Museo Ebraico di Praga è la determinazione a restituire a ciascuna delle vittime una identità, il nome e il cognome, gli oggetti personali, le foto…
Come se fosse il primo atto dovuto a chi come prima sevizia aveva subìto la deprivazione della propria individualità: via i capelli, via gli oggetti e i vestiti, via i documenti, addosso una divisa e un numero. Erano “gli Ebrei”, una massa uniforme e indistinta da gasare previa tortura. Pochi giorni fa, un profugo gambiano di 22 anni si suicida nel Canal Grande, a Venezia. Ci ha messo un po’ per diventare notizia, questa notizia. Mi sarei tuffata io per salvarlo? Non credo, avrei avuto quel coraggio solo se in acqua ci fosse stato mio figlio. Ma mentre questo ragazzo affogava, i documenti e le testimonianze dicono che qualcuno lo appellava “Africa”. Voglio fare uno sforzo intellettuale estremo ed escludere che fosse un sadico insulto razzista.
Resta che questo appellativo rivela molto di come noi guardiamo alle persone che arrivano in Italia. Non hanno un nome e un cognome, per noi. Non hanno una storia personale, un vissuto. Sono, appunto, con tragica assonanza, una massa uniforme e indistinta che si identifica con il continente da cui per la maggior parte provengono, l’Africa. Vogliamo onorare davvero il Giorno della Memoria? Ogni volta che incrociamo lo sguardo di qualcuno di questi ragazzi, bambini, donne che non siamo “noi”, ricordiamocelo che hanno un nome, un cognome, un vissuto, una identità. Ricordiamocelo che non sono Africa.
Pateh Sabally, originario del Gambia, aveva 22 anni ed era giunto in Sicilia due anni fa attraversando il Mediterraneo su un barcone. Era partito da Pozzallo, in Sicilia, ed era arrivato nella città veneta il 22 gennaio, dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari.