Ciò che toglie lavoro ad alcuni, lo può portare ad altri. Ed è così che la parità delle donne, alle volte, può passare anche da un app. Anzi, da una delle app più controverse di tutta la sharing economy.
Croce dei tassisti, delizia dei passeggeri, Uber è nel mirino dei sindacati, dei tribunali e dei governi di molti Paesi. Molti, tranne l’Arabia Saudita. Qui infatti a giugno Uber ha ricevuto dal fondo sovrano della famiglia regnante saudita la ragguardevole somma di 3,5 miliardi di dollari. Il motivo dell’investimento? Il fatto che le auto di Uber possono contribuire ad aumentare l’occupazione femminile saudita.
Spieghiamo meglio: a Riad, è noto, le donne non guidano, e per spostarsi in auto devono affidarsi all’inefficiente rete dei taxi cittadini. Oppure devono supplicare il loro “tutor” – un marito, il padre, uno zio, un fratello – di dare loro un passaggio. Altrimenti, a lavoro proprio non ci possono andare. Ma l’obbiettivo del governo saudita, chiaramente raccontato nel documento Vision 2030 per la modernizzazione economica del Paese, è quello di portare almeno altri 1,3 milioni di donne sul mercato del lavoro. Centinaia di migliaia di donne per le quali è necessario un autista, oltre che una scrivania.
Per il governo di Riad, finanziare una app che funziona è più economico che creare una rete di trasporti pubblici più efficienti. Oltre a Uber, i fondi statali sono andati anche a Careem, servizio omologo ma con quartier generale a Dubai: a foraggiarla (attraverso l’acquisto del 10% delle azioni della società, pari a 100 milioni di dollari) è stata Saudi Telecom, la compagnia telefonica di stato dell’Arabia.
Un autista privato, in Arabia Saudita, costa 3mila riyal al mese: più o meno, un quinto dello stipendio medio mensile che entra nelle case dei sauditi. Troppo per le donne della classe media. Una corsa su Uber costa molto meno. E potrebbe aprire le porte al mondo del lavoro.