Mi chiamo Adelma Tapia Ruiz, ho 37 anni e sono peruviana. Ho sposato un belga, mi trovo bene in Europa, ma da tempo volevo mostrare alle mie due bambine la terra dove sono nata, gli spazi e i colori in cui sono cresciuta, il mio orizzonte d’origine, così diverso dal loro.
Mi chiamo Adelma Tapia Ruiz, ho 37 anni e sono in aeroporto a Bruxelles. Sto per partire, anzi stiamo per partire, partiamo tutti assieme. Hanno quattro anni, le mie gemelline. Quattro anni e un entusiasmo infinito, è il loro primo viaggio in aereo, ed è un viaggio molto lungo. Ho raccontato loro che passeremo sopra a un mare grandissimo, e vedremo anche le montagne. Un bambino cosa può desiderare di più? Io e mio marito non riusciamo a contenerle, corrono da tutte le parti, disturbano, sono eccitatissime,
Mi chiamo Adelma Tapia Ruiz, ho 37 anni e guardo l’uomo che con il suo amore e la sua dolcezza mi ha convinto ad attraversarlo in senso opposto, quel mare grandissimo, sei anni fa. «Portale fuori» suggerisce. Ha la faccia stanca, non abbiamo dormito questa notte, troppa euforia, e i bagagli preparati sempre in ritardo. Gli sorrido. «Portale fuori tu». Non voglio perdermi nemmeno un attimo di questa attesa. Capisco che lui vorrebbe gettarsi su una poltroncina e basta, ma che non mi dirà di no, oggi non mi dirà di no su niente. «Forza, bimbe, andiamo a correre dove non diamo fastidio a nessuno.»
Mi chiamo Adelma Tapia Ruiz, ho 37 anni e osservo le nuche delle mie bimbe sfilare oltre la grande porta. Adesso ho un secondo per fissare la gente nella hall dell’aeroporto. Facce di tutti i tipi, di tutte le etnie, come spesso capita di vedere a Bruxelles. Una città aperta, ospitale, forse troppo, dicono, dopo che da qua sono partiti gli assassini di Parigi, e proprio ieri hanno arrestato il loro complice. Eppure, è per questo che sono contenta di crescerci le mie figlie. Io voglio che abbiano fiducia nel mondo e nella gente, non paura. E’ l’insegnamento più grande che posso dare loro.
Mi chiamo Adelma Tapia Ruiz, ho 37 anni, e sento gridare in arabo. Vedo gente correre in tutte le direzioni, altri restano impietriti, incapaci di muoversi. Proprio vicino a me qualcuno si ferma con un carrello pieno di bagagli. Capisco cosa sta per succedere, tra un secondo, e ho appena il tempo di ringraziare chissà chi, chissà dove, perché le persone che amo di più si sono allontanate.
Appena un secondo, e vedrò tutto bianco. E il mare che dovrò attraversare sarà ben più grande di quello che volevo far vedere alle mie bambine.
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Un secondo. Quanto dura un secondo? Così poco che per scrivere queste poche parole ne ho impiegati una decina. Però non tutti i secondi sono uguali. Alcuni hanno il potere di dilatarsi sino a segnare l’avvenire. Il secondo in cui abbiamo chiuso gli occhi per il nostro primo bacio, quello in cui sono venuti al mondo i nostri figli, quello in cui abbiamo salutato per sempre una persona cara. Questi ce li ricordiamo tutti. Ma il secondo precedente cos’è successo? Quale tumulto agitava le nostre menti e i nostri cuori? Ecco, le storie della domenica racconteranno questi “secondi prima” dei secondi eterni, quelli in cui gli occhi stavamo per chiuderli, le mani per lasciarle o prenderle. Momenti veri o immaginari, vissuti da personaggi più o meno pubblici o ignoti o anche solo da me (ogni autore è narcisista). Perché forse ce li siamo scordati, eppure non sono mai andati via. Quali sono i “secondi prima” dei secondi che hanno cambiato la vostra vita? Raccontateli a giulianopasini@gmail.com e se vorrete, diventeranno storie.