Houston, abbiamo un problema. Secondo il World Economic Forum l’Italia figura al 46esimo nella classifica che misura il livello di cultura finanziaria, peggio ci sono solo Paesi come Messico e Venezuela. Gli altri Stati del G20, così come quelli del G8, sono nettamente in vantaggio. A quanto pare dalle nostre parti in pochi conoscono la differenza tra un’obbligazione e un’azione. Tra un fondo bilanciato e un fondo flessibile, eccetera. Ed è davvero un clamoroso peccato, considerato che da questi concetti non si scappa. Prima o poi tutti si trovano ad avere un gruzzolo, anche piccolo e di poche migliaia di euro, da dover investire. In totale assenza di cultura finanziaria vorrà dire che le decisioni sui nostri soldi le prenderanno altre persone. E non sempre è un bene perdere il controllo.
Per quanto riguarda l’universo femminile, poi, questo problema è amplificato. I temi finanziari sono considerati ostici in partenza e spesso vale il principio tanto poi ci pensa il mio compagno/marito. A questo livello il controllo sul denaro è davvero minimale. Gli italiani sono bravi a mantenere il controllo nella “fase 1”, quella dell’accumulo della ricchezza (abbiamo un patrimonio tra i più elevati in Europa, sei volte il reddito contro le 4 della Germania) ma nella “fase 2”, quella dell’investimento del patrimonio, si mostrano piuttosto impreparati. Non a caso siamo tra i Paesi che investono di più in fondi comuni di investimento. Il che è una buona cosa se non si hanno conoscenze finanziarie perché il fai-da-te è estremamente pericoloso. Ma è altrettanto vero che affidare totalmente ad altri il proprio patrimonio (la fase 2) vuol dire in un certo qual modo rinunciare al controllo.
In qualsiasi campo della vita più abbiamo controllo più abbiamo successo. Il controllo non lo si acquisisce in poco tempo, ma solo – come ricordo in questo post – investendo nel “fattore T”. Se non investiamo nell’educazione finanziaria rinunciamo ad avere il controllo nella “fase 2”. Ed è un peccato perché gli individui ricchi – quelli che hanno un reddito annuo superiore ai 300mila euro – mediamente riescono ad avere una certa forma di controllo anche nella “fase 2”, quella della creazione di redditi da investimento.
Il controllo può essere totale (fai-da-te) o parziale. Personalmente ritengo che il controllo parziale sia la strada ideale da perseguire per chi si procura il reddito primario (“fase 1”) in un ambito differente dal mondo della finanza. In questo caso è improbabile che si abbia la possibilità di acquisire un’esperienza sul campo tale da poter eguagliare le competenze di un professionista che lavora in quell’ambito e quindi di assumere il controllo totale nella “fase 2”. Ecco perché è bene avvalersi della consulenza di esperti nel campo degli investimenti se il nostro reddito primario (“fase 1”) è sganciato dal mondo della finanza e quindi non abbiamo il tempo materiale per pareggiare la cultura finanziaria di un consulente. Abbiamo quindi bisogno della consulenza. Ma allo stesso tempo dobbiamo dimostrare di essere competenti nel campo, per non essere totalmente in balìa.
Dobbiamo “investire nel fattore T” per mantenere una forma, seppur parziale, di controllo sulla gestione della propria ricchezza. Solo in questo caso abbiamo gli strumenti per testare la qualità dei consigli ricevuti. Se non conosciamo la differenza tra un’obbligazione e un’azione, un fondo flessibile o un fondo bilanciato, un fondo passivo e un fondo attivo e via dicendo, saremo totalmente vulnerabili alla eventuale buona fede del consulente finanziario. Il cui obiettivo è in ogni caso diverso dal nostro. Chi vende il prodotto punta sulle commissioni (un flusso costante e periodico di reddito) promettendo agli investitori un guadagno eventuale sul capitale (aumento del prezzo di mercato de prodotto). L’incasso delle commissioni è sicuro mentre il nostro guadagno no. E’ un rischio che non possiamo permetterci perché la “fase 2” deve potenziare la “fase 1”, non eroderla o metterla in pericolo.
A questo punto c’è una semplice regola da seguire, che è la stessa regola che ispira l’investitore che ha il pieno controllo della “fase 2”.
Questa regola è una domanda da porre al consulente e/o all’intermediario finanziario che ci propone di investire in un determinato strumento. “Bene, sono anche disposto ad investire una parte dei miei risparmi in questo prodotto finanziario. A una condizione, però: che lei sia disposto a prestarmi almeno l’80% dei soldi dell’operazione”.
Se il consulente, come accade nella maggior parte dei casi, risponde che non è possibile, non resta che commentare. “Mi scusi, lei mi sta dicendo che investire in questo prodotto sarebbe una grande opportunità, eppure non è disposto a prestarmi dei soldi e rinuncia ai relativi interessi. Non capisco. Ciò significa che lei stesso non crede in prima persona nelle potenzialità del prodotto che mi offre”.
E’ un modo per ribaltare le carte sul tavolo e per far uscire allo scoperto chi propone l’investimento. Se è un investimento davvero interessante e solido questo fungerà da garanzia sui soldi prestati. E il proponente non dovrebbe aver problemi a finanziare l’operazione. In caso contrario, avremo la riprova che non si tratta dell’occasione della vita. E che l’Eldorado sarà da qualche altra parte.