Cosa cerchiamo nelle foto di guerra? Aspettando il World Press Photo

La rosa delle 6 foto dal sito del World Press Photo

La rosa delle 6 foto candidate dal sito del World Press Photo

In questi giorni, tristemente segnati a livello internazionale dal riaccendersi della spirale di violenza e morte in Siria, il World Press Photo, il più importante e famoso premio di fotogiornalismo al mondo, ha reso nota la rosa delle immagini candidate alla vittoria per il 2018.

Si tratta di una novità introdotta dalla Fondazione olandese che ha creato e gestisce il concorso: anziché limitarsi ad annunciare, come accaduto finora, la foto premiata e, ovviamente, i vincitori e primi classificati nelle numerose categorie previste dal regolamento, si è deciso quest’anno di presentare in anteprima le 6 migliori foto selezionate, tra le quali la scelta dell’immagine vincitrice a opera dei giurati è già avvenuta, ma resta per ora segreta; solo il prossimo 12 aprile scopriremo chi salirà sul gradino più alto.

Questa strategia di comunicazione ovviamente stimola chiunque di noi a giocare al giurato, con la speranza di azzeccare la foto giusta o, in caso contrario, di trovare una buona giustificazione per dissentire dall’operato dei giudici; personalmente vorrei sfruttare questa occasione per riflettere su alcune caratteristiche che accomunano le 6 immagini candidate al podio.

I temi sono quelli caldi della cronaca dello scorso anno: la guerra in Siria, il terrorismo islamico in Africa e in Europa, la crisi venezuelana e l’emergenza umanitaria causata da un aspro conflitto etnico-religioso in Myanmar.

Patrick Brown dell’agenzia Panos Pictures (in collaborazione con l’Unicef) ci mostra i cadaveri di un gruppo di rifugiati Rohingya, annegati mentre fuggivano dal Myanmar verso il Bangladesh, Adam Ferguson per il “New York Times” una giovane nigeriana riuscita a sfuggire all’organizzazione terroristica Boko Haram, per la quale era destinata a diventare martire suicida; Toby Melville di Reuters una passante che soccorre una donna ferita nell’attacco terroristico sul ponte di Westminster a Londra lo scorso marzo; Ivor Prickett del “New York Times” è presente con ben due foto, entrambe relative alla città siriana di Mosul: nella prima un gruppo di civili rimasti intrappolati in città attendono in fila di ricevere aiuti, nella seconda un soldato iracheno porta in braccio un bambino nudo fuori dalla zona ancora sotto il controllo dell’Isis. L’ultima immagine, la più spettacolare, di Ronaldo Schemidt di AFP (Agence France Presse) riprende un giovane venezuelano, avvolto dalle fiamme, che fugge a precipizio da violenti scontri con la polizia.

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Civili a Mosul in fila per ricevere aiuti umanitari, 15 marzo 2017. © Ivor Prickett / The New York Times

Un primo elemento comune è la ricerca di un intenso effetto emotivo: in Prickett è ottenuto riprendendo le piccole vittime, il bambino nudo e inerme in mezzo alle macerie di Mosul e il volto della ragazzina che si stringe alla madre, tra la lunga fila scura delle persone in coda; in Schemidt non c’è bisogno di sottolineare l’impatto che hanno su di noi le fiamme sul corpo del giovane, mentre nella donna a terra a Londra, oltre alla leggera macchia di sangue al lato della bocca, sono quegli occhi terrorizzati che guardano verso di noi a colpirci. È inutile aggiungere parole alla distesa dei cadaveri di Brown, mentre l’unica ripresa in interni, quella di Ferguson, crea pathos giocando sul confine di quel che si vede (una piccola porzione di volto, quasi totalmente nascosto dalla veste) e quel che possiamo solo immaginare.

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Scontri con la polizia a Caracas, 3 maggio 2017. © Ronaldo Schemidt / AFP

Sono immagini di reporter professionisti, che hanno una perfetta padronanza dei propri mezzi, e infatti l’altro elemento comune è l’impeccabile confezione formale: il soggetto al centro, l’inquadratura pulita, lo spazio bidimensionale, piatto, che sembra caderci addosso; il nostro sguardo non trova ostacoli, deve guardare e sprofondare nella visione. Sono foto ad alta definizione dell’aspetto comunicativo, che non lasciano dubbi su quale sia il loro messaggio; evocano nel loro impatto spettacolare il cinema e infatti, entro certi limiti, potrebbero funzionare anche senza le didascalie, che hanno il compito di ancorarle a una storia, un luogo, una data, un avvenimento. Sono immagini di impatto, ma prive di connotazioni identitarie forti, terribilmente uguali ad altre già viste raffiguranti soggetti simili.

Sola voce, in parte, fuori dal coro, è la foto di Ferguson, che, non essendo in presa diretta, si differenzia per il suo impianto teatrale, la perfetta regia di ombre e luci soffuse per mostrare e in parte proteggere la giovane ragazza nigeriana, che si disegna nella leggera luminosità color sabbia dell’abito su un fondale quasi neutro. Ma anche questa foto tende a precipitare nell’anonimato comunicativo se non guardiamo la didascalia che la accompagna e la puntella.

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Aisha, quattordicenne nigeriana destinata a missione suicida, fuggita dall’organizzazione Boka Haram. 21 settembre 2017. © Adam Ferguson / The New York Times

Vorrei sgombrare il campo da un equivoco: i fotoreporter, tra mille difficoltà, rischiano spesso la vita per documentare e raccontare quel che succede ai quattro angoli del mondo, svolgendo un compito impervio, difficile e insostituibile, di cui abbiamo estremo bisogno. Ma il punto è che devono adattarsi, per poter continuare a vendere le foto che costituiscono il loro lavoro, alle necessità e alle richieste dei “clienti”: giornali, network, siti, social e quant’altre piattaforme giornalistiche e comunicative, organizzazioni profit e no profit, fondazioni e istituzioni che hanno a che fare con la complessa, stratificata e contraddittoria macchina informativa globale. Non sto parlando solo della fatica di vendere notizie e servizi su argomenti che non catturano l’attenzione dell’opinione pubblica – tre esempi tra i molti: cosa sta succedendo in Afghanistan?, la radioattività e l’emergenza ambientale a Fukushima?, la ricostruzione in molti piccoli centri del nostro Appennino come procede? -, ma di altro: il nostro occhio, il nostro gusto, il nostro cervello sono abituati all’alta e altissima definizione, a immagini dai colori saturi, nitidissime, dove possiamo vedere il dettaglio delle rughe o le goccioline di sudore sui volti, un particolare di quel che accade fuori dalla finestra nell’angolo in alto a sinistra di un’inquadratura di interno. Vedere di più, sempre di più, e sempre meglio; vedere così tanto che poi alla fine è tutto talmente chiaro e delineato che tutto è uguale a tutto e dunque niente è più importante: è il rischio di questo stile spettacolare, super definito, luminoso, saturo che contagia queste foto e che sta plasmando lo stile fotogiornalistico degli anni ’10 del terzo millennio, i nostri.

Ecco perché, se dovessi giocare la carta della mia foto 2017, la giocherei alla fine su quella di Ferguson.

Ecco perché, soprattutto, continuo a pensare che la lezione dei grandi maestri del fotogiornalismo abbia un valore non dirò fondamentale, ma fondante: la lezione di Salgado e Nachtwey – per citare due autori di cui vi ho raccontato recentemente –, le loro immagini colme di misura, equilibrio compositivo, sintetica potenza espressiva, che sono inchiavardate agli avvenimenti, ai luoghi, alle persone, possono essere una guida e un’educazione al nostro sguardo.

In questi anni di formazione permanente, dobbiamo anche imparare o re-imparare a guardare, come abbiamo imparato a camminare e a scrivere, perché oggi siamo tutti convalescenti che hanno bisogno di una riabilitazione visiva.