“Negli ultimi anni sono cambiati i bambini che arrivano in adozione, ma sono anche cambiate le famiglie. Come affrontare questi cambiamenti? Ci sono tre possibilità, resistere, subirli o accompagnarli, cercando di approfittare degli aspetti positivi e riducendo quelli negativi. Le coppie omosessuali possono essere una risorsa per i bambini di oggi? E l’adozione aperta può aiutare a risolvere il problema delle origini? Il fatto che le famiglie siano sempre più composte da una molteplicità di legami, il fatto che sempre più persone adottate, anche adulte, ci portino il tema dell’importanza delle origini e del legame con la famiglia biologica come per loro importante, può aiutarci a considerare l’adozione aperta come una possibile risposta alla necessità dei bambini di mantenere dei legami con la famiglia d’origine ma allo stesso tempo di avere la garanzia di una stabilità affettiva e di crescita?”, con queste domande importanti Paola Crestani, presidente di CIAI Onlus, ha aperto il convegno “L’adozione che verrà”, organizzato lo scorso 14 novembre presso l’Aula Magna dell’Università Bicocca di Milano.
Forte è stata l’adesione, gli organizzatori hanno parlato di oltre 600 iscritti: un dato sicuramente rilevante alla luce del calo delle adozioni degli ultimi anni, segno della voglia del settore di andare avanti, di interrogarsi per mettersi in discussione e capire in quale direzione andare visti i cambiamenti in atto nella società e nella famiglia. Senza però mai dimenticare il best interest of the child, che deve essere al centro di ogni riflessione, come ha ricordato in apertura la stessa Paola Crestani.
I temi sono stati affrontati con approccio scientifico, analizzando gli studi e i dati che arrivano dall’estero, dove alcune pratiche sono già previste da anni.
La realtà delle famiglie italiane è cambiata, come ha esemplificato la professoressa Alessandra Salerno, dell’Università degli Studi di Palermo, condensando sulla carta un mondo variegato di universi familiari (famiglia tradizionale, di fatto, ricostituita, mista, immigrata, omosessuale, monogenitoriale, separata, affidataria, adottiva…). Nell’analizzare la società di oggi dobbiamo partire dal dato di fatto che non esistono “famiglie diverse” ma “diverse famiglie”.
La dottoressa Alessandra Santona, psicologa e ricercatrice dell’Università Bicocca di Milano, ha affrontato la letteratura scientifica in materia di omogenitorialità (ovvero la condizione di genitori in una coppia di persone appartenenti allo stesso sesso) a livello internazionale, soprattutto statunitense. Tra i dati si evidenzia il fatto che il 99,7% dei campioni analizzati riguardino famiglie ricostituite, contro solo lo 0,3% di famiglie di nuova costituzione.
Le domande alla base della ricerca erano le seguenti: un bambino ha bisogno di un padre e di una madre? Avere genitori omosessuali incide sull’identità di genere dei figli, o sul loro comportamento di genere, o sull’orientamento sessuale? Le conclusioni della maggior parte dei dati raccolti hanno rilevato come per la grande maggioranza non si sia evidenziata alcuna influenza sui bambini, ma, come ha rilevato la dottoressa Santona, bisognerebbe spostare il focus delle ricerche dalla “preoccupazione” (il cosiddetto “tema del contagio”) per concentrarsi su come stanno emotivamente i bambini. Inoltre, queste ricerche presentano alcune carenze di fondo, come la mancanza di follow-up, una non specificità sui temi dell’adozione, assenza di riscontri con fonti esterne (insegnanti, vicini di casa…).
Per quanto riguarda l’adozione aperta, quella cioè in cui il bambino adottato non recide del tutto i legami con la famiglia d’origine, la dottoressa Rosalinda Cassibba, docente dell’Università di Bari, ha analizzato le ricerche a livello internazionale.
I vantaggi per i bambini sarebbero i seguenti: l’accesso alle informazioni sulla propria storia, minori fantasie sui genitori d’origine, un maggiore senso stabile dell’identità. Gli svantaggi: stress per la compresenza di due nuclei familiari, maggiori ostacoli al processo di attaccamento verso i genitori adottivi, confusione sull’identità.
Esistono diversi gradi di apertura dell’adozione e vari modi di contatto con la famiglia di origine (epistolare, telefonico, diretto, o tramite un’agenzia che fa da mediatore). La professoressa ha parlato di risultati controversi, ma quello che emerge è che “il grado dell’apertura o non apertura dell’adozione non gioca un ruolo primario nello sviluppo emotivo del bambino, incide di più il coinvolgimento dei genitori adottivi”. Scarsi purtroppo gli studi sull’adolescenza.
Per quanto riguarda l’Italia esiste l’istituto dell’adozione mite con cui il Tribunale di Bari ha cercato di dare risposta ad alcuni casi di affido “sine die”. Si sono analizzati 50 casi di adolescenti, di cui 25 con adozioni mite, e dalle interviste quello che è emerso è che, pur avendone la possibilità, la maggior parte dei ragazzi non ha contatti con i genitori d’origine (negli ultimi tre mesi il 62% non ha mai incontrato la madre, il 76% il padre) per scelta dei ragazzi (ben il 71% per quanto riguarda la madre e il 59% per il padre). Maggiori contatti invece vengono mantenuti con eventuali fratelli (il 37% negli ultimi tre mesi non li ha incontrati), il legame fraterno si dimostra quindi un fattore di protezione importante.
Un dato molto incoraggiante che è emerso per quanto riguarda l’attaccamento ai genitori adottivi è che l’adozione legittimante presenta una percentuale di attaccamento più alta della media della popolazione in generale.
Come ha rilevato Marco Chistolini, psicologo e responsabile scientifico CIAI, l’adozione aperta rappresenta un’opportunità per dare una famiglia stabile ai minori in stato di “semiabbandono permanente”, ma deve poi essere gestita e sostenuta da “servizi dedicati e formati”. Adozione aperta “non significa doppia appartenenza, se la faremo deve essere chiara la preminenza della famiglia adottiva, quella biologica sta nel ruolo di lontani parenti”. Un’apertura quindi comunicativa più che strutturale.
Preoccupazione sull’argomento ha mostrato Monya Ferritti, presidente del Coordinamento CARE (una rete di 33 associazioni di famiglie adottive e affidatarie), che ha sottolineato come queste nuove forme di adozione debbano poi essere ben accompagnate e strutturate nella pratica, in modo da non lasciare soli i genitori adottivi a gestire situazioni particolarmente complesse.