La vicenda dei bambini adottati in Congo e la lunga attesa delle famiglie italiane coinvolte ha guadagnato più volte l’onore delle cronache. Finalmente il 10 giugno scorso anche l’ultimo gruppo di bambini ha potuto abbracciare le famiglie italiane e iniziare una nuova vita. La fine di un lungo incubo.Ma, a gettare un’ombra sulla già intricata vicenda, è arrivata una sconcertante inchiesta pubblicata dal settimanale “l’Espresso”, venerdì 8 luglio. Sconcertante già dal titolo: Congo, italiani ladri di bambini. Secondo l’articolo, ci sarebbero state delle presunte irregolarità nell’adozione di almeno 5 bambini, sottratti da trafficanti alle loro famiglie di origine, dichiarati orfani e abbinati a ignare coppie italiane.
Un importante ente italiano, Aibi, secondo l’articolo., sarebbe stato a conoscenza del traffico di bambini e non avrebbe denunciato il caso. Anzi, avrebbe addirittura ostacolato con ogni mezzo, anche illecito, non solo l’indagine avviata dalla Commissione Adozioni per far luce sulla vicenda, ma anche “la partenza per l’Italia di decine di bimbi, mettendo così a rischio il trasferimento di tutti i centocinquantuno minori già adottati in Congo da famiglie italiane”. Accuse pesantissime, che Aibi ha immediatamente smentito, pubblicando la propria versione e annunciando querele.
Al di là del diritto d’informazione, non bisognerebbe mai dimenticare che dietro a queste vicende ci sono persone: coppie, bambini, ragazzi, famiglie, che vivono una quotidianità fatto troppo spesso purtroppo di stereotipi e non conoscenza del mondo dell’adozione. E, ancora, in un quadro generale di grande affanno delle adozioni internazionali, dove il 30% delle coppie abbandona prima di completare l’iter, forse andava usata maggiore cautela? Quale messaggio si trasmette a un lettore frettoloso? La cultura dell’adozione passa anche attraverso la scelta delle parole utilizzate.
A una settimana di distanza dalla pubblicazione dell’articolo, nessun chiarimento è arrivato da parte della Commissione, né dal governo. Chiarimenti doverosi nei confronti delle famiglie coinvolte e non solo.
Una risposta da parte delle istituzioni è doverosa, a garanzia della correttezza di un sistema nato proprio all’insegna della tutela dei bambini e delle coppie, fatto di enti autorizzati ad operare dal governo e di una commissione governativa (la Cai, Commissione per le Adozioni Internazionali) chiamata a vigilare proprio sul loro operato e sulla legalità delle pratiche. Perché nessun bambino adottato può entrare in Italia senza l’autorizzazione della Commissione.
Aibi è uno tra gli enti più grandi che operano nel nostro Paese, con centinaia di coppie che ogni anno conferiscono mandato, ovvero, parafrasando i freddi termini burocratici, gli affidano il futuro della loro vita e la realizzazione del loro desiderio più grande: formare una famiglia accogliendo un bambino venuto da lontano. Le coppie che attualmente hanno conferito mandato ad Aibi, aggiornate all’11 luglio scorso, secondo i dati pubblicati sul loro sito, sono ben 269.
Una serie di domande rimane ancora senza risposte. Se un’inchiesta c’è, come dice l’articolo, già da due anni, perché Aibi continua ad operare? Chi garantisce le coppie in attesa sulla serietà ed onestà dell’ente? Perché ora che tutti i bambini sono arrivati da più di un mese in Italia, e non ci sarebbe più motivo di tacere, non è stato ancora diffuso un comunicato ufficiale?