L’altra sera, un interessante convegno organizzato da Wind-TRE nel corso della Digital Week milanese si chiudeva in modo audace con un’intervista live al cantante Fabio Rovazzi. La definisco “audace” perché, in un contesto molto aziendale che, nonostante il tema fosse l’innovazione, schierava quasi solo abiti grigi e cravatte, far salire sul palco un giovane uomo la cui forza sta nel pensiero laterale e divergente è comunque un atto di coraggio – è anche vero che è il loro testimonial pubblicitario, quindi siamo ancora in un’area di sicurezza.
L’intelligenza di Rovazzi non sorprende: sappiamo che per interpretare il pensiero di una generazione complessa come la Z (i Millennial sono già vecchi, ahimè) ci vuole una bella testa. Ciò che invece mi ha colpita a un certo punto del suo intervento è stato che dicesse: “Quante cose mi sono perso…” riferendosi proprio agli oggetti che identificano malinconicamente la generazione X, quella che era giovane negli anni ’80.
Ebbene, Rovazzi sente di aver perso, come si perde un’opportunità che non torna più, la possibilità di vivere come abbiamo vissuto noi, i 50enni di oggi.
E in effetti la generazione X – trattata spesso come il principe Carlo: eterna erede a un trono che non vedrà mai, schiacciata tra i baby-boomer che non cedono il posto e i nativi digitali che lo spazzeranno via – non è mai stata invidiata da nessuno eppure…
Siamo nati negli anni ’70, ossia televisione in bianco e nero e primi programmi a colori, niente telecomando, manga giapponesi (da Mazinga a Candy Candy), telenovelas, Nutella (quella c’è ancora!) e telefono grigio, fisso, a volte duplex.
Siamo quindi nativi analogici “primitivi”: sappiamo com’era il mondo senza navigatore satellitare, senza autovelox, senza internet. Ce la siamo cavata senza telefoni mobili fino alla laurea e le nostre prime email le abbiamo mandate ai colleghi d’ufficio, mentre la posta elettronica verso l’esterno era proibita perché considerata poco sicura. Ci mandavamo lettere e cartoline, ci lasciavamo bigliettini davanti alla porta o sotto il banco.
E oggi siamo qui: un cervello che è stato educato in un mondo non digitale oggi vive, comprende e decide a terabyte, abbandona il mouse per il touch (io ancora non ci riesco), non desidera più acquistare ma “condividere la proprietà” (o almeno ci stiamo provando), ha fatto pace con il passaggio dall’essere i primi casi isolati di figli di divorziati all’avere in classe dei nostri figli numerosi casi di nonni divorziati.
Siamo una generazione di passaggio. Anzi, siamo LA generazione di passaggio: nessuna più di noi prima di noi ha piantato i piedi nel passato e la testa nel futuro. Per quante trasformazioni ci saranno nei prossimi 30 anni, difficilmente eguaglieranno quelle degli ultimi 50 in termini di possibilità, globalizzazione, diffusione delle informazioni, cambiamento dei nostri strumenti quotidiani. Le auto potranno volare, ma noi siamo passati dall’auto come status symbol al puro utilizzo di auto, biciclette, motorini e monopattini. I mezzi di comunicazione potranno cambiare, ma noi siamo passati dal telegrafo alla chat che sparisce dopo l’uso. I social potranno evolvere e anche sparire, ma noi avevamo solo le bacheche di condominio.
Questa è stata la nostra opportunità, ed è forse anche la firma della nostra responsabilità: noi sappiamo com’era prima e vediamo com’è adesso, mentre immaginiamo e disegniamo come sarà domani. Una generazione unica, che ha per questo un grande potere (anche se forse non salirà mai sul trono).