“Venezia che muore”cantava Guccini ricordandoci, se mai ce ne fosse bisogno, dei problemi di questa città tanto amata in tutto il mondo. E infatti la teniamo sempre d’occhio, noi connazionali. Così quando qualcuno ci mette le mani, fossero pure le sue stesse istituzioni, noi arriviamo subito a presidiare la situazione. Come quando la Giunta comunale ha deciso di sostituire alcuni gradini in vetro del già controverso ponte di Calatrava con elementi in trachite (meno scivolosi in caso di pioggia). Discussioni, proteste, fazioni. Apriti cielo (la terra, o in questo caso le acque, è meglio di no!). Oggi l’aere veneziano si è agitato per una notizia che viene dal Consiglio comunale. La sua presidente Linda Damiano ha deciso di smantellare il testo del Regolamento interno eliminando tutti i termini che indicano ruolo istituzionale declinati al femminile e lasciando solo quelli maschili. Il modello teorico soggiacente a questa decisione sembra essere rappresentato dalla richiesta di Elisabetta Casellati di farsi chiamare “presidente” e non presidentessa del Senato, e dalla volontà di non appesantire il lavoro degli uffici comunali, abituati a usare solo forme maschili, chiedendo di usare anche quelle femminili. L’opposizione recalcitra sostenendo che così il testo diventerebbe “inevitabilmente retrogrado e sessista”.
La questione non è nuova, così come non è nuovo il fatto che in casi di questo tipo – Venezia non è la prima a trovarcisi in mezzo – la discussione da ambo le parti ricorra disinvoltamente a argomentazioni traballanti, infarcite di opinioni personali e di nozioni linguistiche pasticciate con un linguaggio impreciso. C’è una grande confusione: si confonde “genere” con “sesso”, si afferma che esiste il “maschile neutro”, si sostiene che le cariche istituzionali non si declinano, e si condisce il tutto con la lapidaria condanna che “sono forme cacofoniche”. Una frase, questa, che allontana le incaute persone che si erano avvicinate alle forme femminili, un po’ come quando nell’età infantile arrivava la minaccia “non toccare, cacca”. Potenza della fonetica! Così hanno buon gioco gli atteggiamenti benaltristi di coloro che affernano “ci sono cose più importanti di cui parlare”.
E invece no. Il linguaggio usato dalle istituzioni rappresenta un’interfaccia con i cittadini che deve garantire una comunicazione chiara, precisa e efficace. Ma per far questo è necessario che chi usa il linguaggio istituzionale sia consapevole di come funziona, a partire da coloro che occupano le cosiddette più alte cariche dello Stato fino a chi lavora negli uffici dei piccoli comuni. Ma, udite udite, spesso è proprio chi appartiene a questo secondo gruppo che ne sa di più, magari perché ha fatto corsi di formazione sul tema. Mentre altrettanto spesso quelli del primo cascano dalle nuvole.
La ministra Bongiorno pochi giorni fa ha affermato candidamente “Ho combattuto per essere chiamata avvocato nella professione. Credo che i ruoli non vadano al maschile o al femminile. Quindi ministro“. Una giustificazione un po’ debole per una scelta piena di significato. E anche un tantino prepotente, visto che impone un modo di parlare. La lingua invece non si impone, lo notava già Alma Sabatini nel suo lavoro “Il sessismo nella lingua italiana” del 1987 che svelò all’Italia le brutture sessiste della sua bella lingua. Una lingua che continuava a usare il solo genere grammaticale maschile per una manciata di termini che indicavano professioni o ruoli istituzionali di prestigio, tradizionalmente destinati agli uomini, anche quando erano riferiti a donne. Con il risultato di cancellare le donne. Trent’anni dopo continuiamo a farlo ostinandoci a ignorare, solo per questi termini, le regole della grammatica italiana che richiedono il genere grammaticale maschile per gli uomini e quello femminile per le donne (mentre le applichiamo in tutti gli altri casi), ricorrendo a affermazioni risibili per giustificarlo, avallando una comunicazione istituzionale distorta e infedele. E invece sarebbe meglio, anzi doveroso, studiare prima di pontificare: la grammatica, bellezza, non è un’opinione.