
Una sentenza che “conferma la difficoltà per le donne di vedere riconosciuta la violenza domestica”. Un “capolavoro di sottocultura patriarcale traversale nella società italiana e che troviamo anche nei tribunali”. Sono questi alcuni dei commenti che arrivano dai centri e dalle associazioni che assistono le donne vittime di violenza, dopo le anticipazioni su La Stampa delle motivazioni della sentenza, con cui il tribunale di Torino ha assolto un uomo dall’accusa di maltrattamenti nei confronti della ex moglie. La donna, Lucia Regna, 44 anni, oggi, dopo l’aggressione avvenuta il 28 luglio 2022, ha il volto ricostruito da 21 placche di titanio e un nervo oculare lesionato.
«Lui va compreso» perché lei «ha sfaldato un matrimonio ventennale» e ha comunicato la separazione in maniera “brutale”, si legge nelle parole messe nero su bianco dai magistrati del tribunale (presidente Paolo Gallo, giudici Elena Rocci e Giulia Maccari), in diciotto pagine di motivazioni. Parole che scatenano indignazione e solidarietà bipartisan, dal Pd a Fratelli d’Italia. Eugenia Roccella, ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, spiega che le motivazioni della sentenza, «con parole di comprensione e giustificazione nei confronti di un pestaggio, dimostrano che la cultura che dobbiamo contrastare e che è alla base di violenze e prevaricazioni si è insinuata troppo spesso anche fra coloro che dovrebbero contribuire a reprimere questi fenomeni».
«Il diritto non può ridursi a puro tecnicismo, soprattutto su casi che posso diventare esempi futuri. Le parole pesano e condizionano», ha dichiarato Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, che ha chiesto gli atti del procedimento.
Una separazione brutale
Nella sentenza pronunciata a giugno, il tribunale penale di Torino ha assolto Carlo Pizzimenti, 44 anni, dall’accusa di maltrattamenti, condannandolo a un anno e sei mesi per lesioni, contro i quattro anni e mezzo di reclusione chiesti dalla pm Barbara Badellino.
L’episodio chiave è avvenuto il 28 luglio 2022, quando Lucia Regna fu vittima di un pestaggio che le distrusse il volto: secondo il giudice, non si trattò di «un accesso d’ira immotivato», ma di «uno sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane». Lei nel 2022 aveva deciso di lasciare il marito dopo 17 anni di matrimonio. Ma l’aggressore – secondo il magistrato – «va compreso»: era un uomo che si sentiva «vittima di un torto», sapendo che un altro uomo «trascorreva del tempo nella casa che per quasi vent’anni era stata la sua dimora familiare e si sostituiva a lui nel suo rapporto con i figli».
«E il modo in cui ella attuò la separazione, ebbe qualcosa di brutale». Il modo brutale è un whatsapp inviato dalla donna all’ex marito nell’agosto 2021, mentre lui era in vacanza con i figli.
L’aggressione che diventa dialettica
L’uomo «va compreso», continuano i giudici, anche se insultava pesantemente la donna davanti ai due figli, oggi 16 e 18 anni. La definiva putt***, le diceva che avrebbe fatto la fame con i ragazzi e che non era una brava mamma.
«Pare evidente – scrive il giudice definendo l’uomo “sincero e persuasivo” – che queste frasi devono essere calate nel loro specifici contesto. L’amarezza per la dissoluzione della continuità domestica era umanamente comprensibile». Si tratta di una «dialettica innescata da una situazione traumatica».
«Risulta evidente – si legge nei motivi – la tendenza della donna a trasfigurare episodi che fanno parte dei consueti rapporti familiari in insopportabili soprusi di elevata frequenza».
La giustificazione alla violenza
«Il messaggio che arriva dai giudici è allarmante – commenta Nadia Somma, responsabile del centro antiviolenza Demetra di Ravenna – . La sentenza giustifica infatti la furia vendicativa di un uomo, solo perchè è stato lasciato da una donna. C’è un rovesciamento di responsabilità, è la donna a essere colpevolizzata. È un incoraggiamento a giustificare i comportamenti violenti degli uomini, quando la compagnia non rispetta le loro aspettative».
Secondo Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna, «la decisione rappresenta un arretramento culturale e giuridico inaccettabile, si torna al concetto di violenza maschile come reazione, deresponsabilizzando l’autore di reato. Insulti, minacce e atti di coercizione vengano normalizzati come dialettica familiare».
Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea e coordinatrice della rete antiviolenza Reama, ricorda che «derubricare i maltrattamenti a conflitto è in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, dalla Convenzione di Istanbul alla Cedaw e Cedu, che riconoscono la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani».
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