Violenza contro le donne, la piena parità in Italia è ancora lontana

Il 2025 è appena cominciato e in Italia si contano già cinque femminicidi: cinque persone uccise per il fatto di essere donne, vittime di un meccanismo patologico di prevaricazione di genere fondato sul mancato riconoscimento di identità autonoma e dignità individuale.

L’Argentina rimuove il femminicidio dai reati penali

La violenza di genere è un fenomeno trasversale radicato: l’espressione cruenta di una guerra che miete quotidianamente vittime diverse per provenienza geografica e sociale, cultura, storia e attitudini ma accomunate dall’essere donna. È una realtà globale e acclarata, avvalorata da dati eloquenti. Eppure il presidente dell’Argentina, Javier Milei, ha da poco annunciato la rimozione del reato di femminicidio dal codice penale perché violerebbe il principio di uguaglianza, segnando una discriminazione indebita e una sorta di gerarchia tra vittime.

Il riferimento è a un concetto di eguaglianza solo formale, che si accontenta di dichiarare che «siamo tutti uguali di fronte alla legge», senza considerare gli ostacoli di ordine economico e sociale che – nei fatti – impediscono il raggiungimento della vera parità. È un punto di vista che mette in discussione il principio di eguaglianza sostanziale e miete consensi, come dimostrano gli ordini esecutivi di Donald Trump, volti a cancellare le politiche di inclusione e riconoscimento delle diversità.

Si tratta di posizioni che semplicemente non tengono conto della realtà che manifesta forme di sopruso che gli esseri umani di sesso femminile subiscono secondo una gradazione che va dal paternalismo, alla discriminazione, alla molestia, fino all’abuso fisico, espressione di una visione del mondo ancorata alla concezione arcaica, ma resistente, per cui le donne possono essere punite ove non rispondano allo stereotipo remissivo che le vuole compiacenti e subordinate.

La giurisprudenza italiana

L’elemento di base che occorre tenere a mente per affrontare il tema della violenza di genere è l’iconografia standardizzata della figura femminile dedita a determinate mansioni e sostanzialmente funzionale al benessere della famiglia che, per molto tempo, anche nelle democrazie occidentali, è stata avvalorata dalla dimensione giuridica. Basti pensare al caso italiano: qui a lungo nell’immaginario collettivo la figura della donna ideale è stata associata all’angelo del focolare e questa immagine non veniva stigmatizzata bensì avvalorata da una normativa che rifletteva la previsione di gerarchia di genere nell’ambito della famiglia e della dimensione pubblica.

Nell’Italia repubblicana, per anni, il principio di eguaglianza è stato contemperato con il fine dell’unità familiare, sull’altare del quale è stato immolato. Sebbene la Costituzione del 1948 dedichi ampio spazio alla questione femminile (artt. 3, principio di uguaglianza: 29.2, parità dei coniugi nel matrimonio; 31.2, maternità; 37, donna lavoratrice; 48, diritti politici; 51 pari opportunità) fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, la prevalenza giuridica della posizione dell’uomo si manifestava nei tre principali ambiti della vita familiare: rapporti tra marito e moglie; rapporti patrimoniali e rapporti con la prole.

La donna seguiva infatti la condizione civile del «capofamiglia», ne assumeva il cognome, era tenuta a seguirlo ovunque egli ritenesse opportuno fissare la residenza ed era soggetta al dovere di coabitazione. Il marito era gestore e responsabile del patrimonio familiare e godeva di un regime sanzionatorio privilegiato in caso di adulterio. La patria potestà era formalmente affidata a entrambi i coniugi ma esercitata in via prioritaria dal padre, sostituibile dalla madre solo in caso di assenza o altro impedimento. Come corrispettivo per questi doveri di sottomissione alla volontà del marito, la donna aveva il diritto a essere mantenuta e protetta.

Il nuovo diritto di famiglia

Il nuovo diritto di famiglia muta l’impianto codicistico, affermando il principio secondo cui – per effetto del matrimonio – i coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Scompare anche ogni riferimento alla patria potestà che però resta un concetto radicato nella mentalità di molti. Questo gap profondo tra disciplina giuridica testuale e percezione reale ancora non è stato colmato.

Presupposto per rispondere in maniera efficace alla violenza è una presa di coscienza, un’assunzione di responsabilità da parte dell’ordinamento e un impegno concreto a trasformare la lettera della legge in misure effettive. L’avvicendarsi ininterrotto di casi di violenza ai danni di una donna maturati nell’ambito di legami preesistenti dimostra che un inasprimento delle misure penali è insufficiente, serve agire con capillarità e rigore in via preventiva.

Educare al rispetto e alla parità

Urge educare al rispetto e alla parità sin dalla primissima infanzia; stigmatizzare non solo i comportamenti violenti ma anche quelli paternalistici e apparentemente accudenti, che nascondono invece volontà di controllo e prevaricazione. Le donne sono persone, non creature fragili da proteggere, non esseri eterei, non porcellane da rimirare o mandare in frantumi ma esseri umani con caratteristiche e talenti che hanno diritto di esprimere al meglio, realizzandosi come individui e non in funzione di qualcun altro.

Una donna umiliata, anche solo verbalmente, che non si ribella e che non è sostenuta dalla collettività e dall’ordinamento nel rifiuto della brutalità subisce una ferita personale profonda ma comporta anche una ricaduta sulla società perché fornisce un modello distorto per chi le sta attorno e percepisce attraverso la rassegnazione l’ammissibilità di comportamenti prevaricatori, ingiusti e inaccettabili. Più cinicamente, le donne vittime di violenza costituiscono una perdita per la comunità che non può trarre giovamento di risorse che sarebbero preziose e sono invece escluse dalla dinamica sociale perché lese nell’autostima, delegittimate e incapaci di agire in modo indipendente.

Ancora esiste una subcultura in cui le donne sono percepite soprattutto come strumentali a un ruolo, concepite in funzione di uno stereotipo e non in quanto esseri individuali. La violenza a volte viene accettata perché considerata come un sacrificio che vale la pena sopportare per il bene (fantomatico) di qualcuno (i figli, il marito, i genitori) o di qualcosa (l’unità familiare, il buon nome della famiglia). Ebbene questo è possibile solo perché ancora accade che le donne siano considerate e considerino sé stesse non come persone degne di rispetto non in quanto tali bensì in ragione dell’essere figlie, mogli, madri. La paura di perdere questo ruolo può essere tanto minacciosa e destabilizzante da portare a sopportare anche il peso della violenza pur di conservare lo status.

Il cambiamento culturale è necessario

Soprattutto, dunque, bisogna intervenire dal punto di vista culturale, enfatizzando il valore individuale delle donne, che al pari degli uomini concorrono alla creazione e al benessere della famiglia e della società. Né più, né meno: alla pari. Una donna che rispetta sé stessa pretende rispetto e non accetta di essere oggetto di soprusi di alcun tipo.

La violenza di genere comincia prima di uno schiaffo e va ben oltre il maltrattamento fisico: nasce negli stereotipi radicati e ancora accettati che vogliono, in una coppia, l’uomo almeno un po’ più forte, più grande, più in carriera, più solido economicamente rispetto alla donna. Ma l’amore non è competizione, tantomeno sopraffazione; è complementarità tra esseri umani che prima di tutto si rispettano.

Nel 2022 È mancata Elena Gianini Belotti che, con il suo «Dalla parte delle bambine», ha contribuito a combattere gli stereotipi odiosi e radicati nella cultura popolare e nel modello pedagogico diffusamente adottato in Italia e altrove. Gianini Belotti era una voce fuori dal coro quando, nel 1973, affermava che la differenza di carattere attribuita tradizionalmente a maschi e femmine non fosse dovuta a fattori innati bensì a condizionamenti culturali subiti nel corso dello sviluppo individuale.

Da allora sono stati fatti passi da gigante nella lunga marcia verso la parità di genere ed è chiaro che nessun traguardo professionale o di realizzazione personale può essere legittimamente precluso alle donne per il solo fatto di essere tali. Tuttavia, basta guardarsi intorno per constatare come la piena parità sia lungi dall’essere raggiunta e questa è una sconfitta per l’umanità intera, non solo per le donne.

L’educazione alla parità tra generi, al di fuori degli stereotipi, deve essere considerata parte integrante di un progetto organico di alfabetizzazione democratica che è il primo strumento attraverso il quale promuovere l’acquisizione di un grado di cognizione e cultura costituzionale diffuso, pilastro di una democrazia matura e solida.

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  • Klaus von Lorenz |

    I GENITORI, non si accorgono come essi inducono i propri figli a NARCISISMO e VIOLENZA ? Vogliono che il figlio si distingua in grandezza ma, invece di farlo crescere, gli insegnano come abbassare l’altro ! . . . milita nella squadra – uniforme – capitano – attaccanti – difensori – sconfitta – vittoria – medaglie – inno nazionale – bandiera – orgoglio – NOI . . . . . ” Lo sport non ha bisogno di partenze, incitazioni, cronometri , esibizionismo e quant’altro. L’agonismo invece, rievoca l’assalto da trincea e la fucilazione: sui posti – pronti – via = puntare – mirare – fuoco ! Grazie dell’insegnamento ! . ..ma, si fa per gioooco ! . . . è spooort !” . . . Subliminale e inavvertitamente ben inglobato insegnamento . .
    – L’atleta milita nella squadra agli ordini di un capitano
    – Va sul piede di guerra e combatte da cannibale
    – Assalta come un mostro, fa stragi e devasta i rivali
    – Demolisce il nemico e domina sugli avversari
    – Espugna e ottiene la vittoria
    – Diventa un dominatore, un ottimo bomber

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