
Foto IPP/Felice De Martino
«(Questi ragazzi) sono il sale della vita»: essere d’esempio per tutti, ma privati d’identità. Questi sono gli attori del Teatro Patologico, ospiti della terza serata del festival di Sanremo. Perché non basta più il vecchio detto «purché se ne parli» quando dobbiamo raccontare la disabilità?
Nella terza serata del festival, gli artisti del Teatro Patologico di Roma, un progetto a cura di Dario D’Ambrosi, si sono esibiti in un brano del Simon Boccanegra, dal titolo «La vita è musica». Il Teatro Patologico è diventato, negli anni, un laboratorio sperimentale di riferimento per chi ha una disabilità fisica e psichica e desidera percorrere la carriera di attore.
Vedere questi professionisti sul palco più famoso d’Italia è stato senz’altro una svolta in termini di inclusione e sensibilizzazione, ma cosa è andato storto? Le parole scelte per presentare gli artisti non sono state le più appropriate. Basta con i soliti cliché!
La disabilità come sofferenza
Ad apertura della presentazione del Teatro Patologico, Conti si è espresso in questi termini: «(D’Ambrosi) è al servizio di chi soffre di disabilità fisiche e psichiche». Ma la disabilità non è una malattia di cui si soffre, è una condizione, che può essere congenita o acquisita nel tempo, e quindi non una patologia.
Inoltre è necessario fare lo sforzo di dividere la sovrastruttura della disabilità dalla persona, perché l’individuo non può e non deve essere rappresentato dalla condizione di cui è portatore. Ogni persona ha obiettivi, abilità, sentimenti, passioni, competenze che vanno al di là di qualsiasi disabilità. Quest’ultima, quindi, non deve essere l’unica caratteristica con cui la si identifica, come fosse totalizzante.
L’infantilizzazione delle persone con disabilità

ANSA/ETTORE FERRARII
Sempre nel corso della presentazione, prima dell’esibizione, Conti accoglie gli attori del Teatro Patologico con il nome di “ragazzi e ragazze”, quando, in realtà, nella formazione del gruppo, ci sono uomini e donne adulti. Anche in questo caso, si deduce un errore di comunicazione, che ricorre in quella narrazione stereotipata delle persone con disabilità come eterni bambini.
Incontrare una persona in carrozzina e rivolgersi a lei come fosse un bambino, permettersi di fare una carezza sul viso o sui capelli ad un adulto con disabilità o usare un linguaggio semplice e un tono di voce dolce sono tutti atteggiamenti che vanno in questa direzione e che dovrebbero essere evitati. Bisogna vedere la persona che abbiamo di fronte andando oltre gli stereotipi.
La visione pietistica
«Teatro come cura», «senza di loro la vita sarebbe una noia» sono tutte espressioni che non rappresentano la narrazione della disabilità per come la vogliamo vedere oggi. La condizione di disabilità, per la quali molti esclamano costantemente un «poverino/poverina!» d’effetto, non va vista con gli occhi di un pietistico paternalismo.

ANSA/ETTORE FERRARI
La vita con disabilità è una vita che merita di essere vissuta a pieno, come tutte le altre, e pensare che una passione, o un lavoro come nel caso del Teatro Patologico, sia l’unico fattore che dia alla persona un senso per vivere è estremamente riduttivo. Le persone con disabilità possono avere una vita pienissima, proprio per questo sentirsi costantemente commiserati per la propria condizione, rappresenta un problema che mina l’autostima e l’autoaffermazione della persona.
La soluzione, nel parlare di disabilità, è dare un contesto adeguato e ricordarci quali sono gli argomenti veramente inclusivi: progetto di vita, pari opportunità, accessibilità, autodeterminazione e comunicazione.
Il rispetto della professionalità
Infine gli artisti del Teatro Patologico sono attori. L’attività è professionalizzante nel settore dell’intrattenimento e è corretto riconoscerne la valenza.
Nel luglio 2024 è stata approvata la riforma della disabilità, che prevede un nuovo corso per il Progetto di Vita che promuove l’indipendenza delle persone con disabilità, anche gravi, proprio perché si è riconosciuto come l’autonomia sia diritto fondamentale per tutti. E’ quindi il momento di portare ciò che è diventato legge anche negli altri ambiti sociali, come i media, in particolare la televisione, per il potere divulgativo di massa che possiede.
Cambiare il linguaggio, l’atteggiamento, la narrazione della disabilità permette di poter cambiare la cultura del Paese e poter sviluppare tutte le misure previste dalla normativa italiana a sostegno della vita delle persone con disabilità.
«Perché Sanremo è Sanremo» e come cambiano i gusti musicali, deve cambiare anche la retorica del dolore e dell’ispirazione: un passo è stato fatto, per i prossimi festival, aggiungiamo le note mancanti e distruggiamo le prospettive abiliste da cui si guarda e si racconta la realtà!
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