Lettera di Anna Rosa Besana e Rossella Gattinoni, docenti di Lettere di un Liceo della provincia di Lecco
Il lavoro dell’insegnante è mal retribuito, si sa. Il rinnovo dei contratti avviene sempre tardivamente e dopo iter lunghi e farraginosi. Da poco chiuso il rinnovo del triennio 2019-2021, il Ministro Valditara, a luglio, ha annunciato l’avvio della trattativa per il contratto 2022-2024 che dovrebbe portare ad un aumento stipendiale mensile lordo attorno a 150-160 euro. Dunque, seppur a passo di formica e sempre tardivamente, va riconosciuto lo sforzo di riposizionare e valorizzare la professione insegnante. Non è questa la sede per dibattere sulla questione burocratica e politica per valutare di chi effettivamente sia il merito di questi piccoli passi. Certo è che qualche miglioramento s’è visto, tanto che l’ultimo rapporto OCSE TALIS, diffuso da INVALSI, parla di un significativo miglioramento del potere d’acquisto della retribuzione degli insegnanti, anche in relazione agli altri paesi europei. Prospettiva positiva che si mantiene anche dopo una quindicina d’anni di professione, ma che poi precipita fino al pensionamento. E proprio in questo, nella progressione di carriera, ravvisiamo le criticità più significative.
Quanto guadagna un’insegnante?
Facciamo un po’ di chiarezza. Con buona approssimazione, senza operare distinzioni di ordine e grado (che pur ci sono,) possiamo dire che nella prima busta paga un docente si trova 1.400 euro e nelle ultime, dopo oltre 35 anni di servizio, attorno ai 2.000 euro. Dunque: una neoassunta (usiamo il femminile per via della prevalenza delle donne nel settore scuola), che ha superato il concorso poco dopo la laurea a 24-25 anni, può dire di avere un posto di lavoro “sicuro”, discretamente retribuito, puntualmente erogato dallo Stato e a contratto indeterminato. Se poi si confronta con ex compagni di università che lavorano a stage, con compensi che non arrivano ai 1000 euro, se non addirittura gratuiti e comunque a tempo determinato, la giovane neoassunta può dirsi fortunata. Insomma, il vecchio adagio alla Checco Zalone: il paradiso del posto fisso.
Ma prendiamo la stessa persona che cresce, non sta più a casa dei genitori, vive in una famiglia propria magari con un figlio (difficile ipotizzarne di più). Quei 1.400 euro iniziali, diventati 1600, poi 1800 quando il figlio frequenta l’università, appaiono irrisori. Nel frattempo, la docente ha maturato esperienza e, sicuramente, il lavoro in grado di svolgere a 20 anni di distanza dal primo ingresso in un’aula di scuola è significativamente cambiato. Questo, non solo perché ha fatto formazione teorica e corsi di aggiornamento, quanto piuttosto perché ha lavorato sul campo tout court, ha sperimentato e consolidato, in un lavoro di cooperazione con i colleghi, tecniche didattiche diversificate, ha incontrato varie generazioni di studenti e ha imparato la flessibilità nelle relazioni. Eppure, la crescita professionale viene contata burocraticamente con gli scatti stipendiali, compensata con poche manciate di euro. In ciò ravvisiamo il punctum dolens: ci sono Paesi in Europa, non molto lontani da noi, in cui lo stipendio a fine carriera è il doppio o anche oltre rispetto alla retribuzione iniziale. E a ragion veduta.
Compensi accessori
A onor del vero, qualche pezza è stata messa, con i compensi accessori che il docente può accumulare in busta paga se si impegna in progetti compensati nell’ambito del FIS (Fondo d’Istituto Scolastico). Ma in questo si riscontrano limiti evidenti: chi insegna sperimenta quotidianamente come molto del lavoro a progetto sia comunque già svolto durante le attività in classe. Piuttosto, le attività realmente aggiuntive (v. PCTO) potrebbero rientrare nelle funzioni docente, se adeguatamente riqualificate in termini economici. Insomma, è come se la narrazione mitologica delle 18 ore in classe dell’insegnante trovasse conferma nel voler proporre lavoro in più da svolgere per trovare ragione di una maggiore ricompensa. Senza contare poi che tali incentivi finiscono per determinare un aumento della RAL che sarà soggetto a conguaglio fiscale nel mese di febbraio.
Tra i numerosi, proponiamo due esempi di compenso aggiuntivo, uno appena sperimentato nell’ultimo anno scolastico, l’altro un po’ più consolidato: il tutor scolastico/orientatore e il tutor PCTO.
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TUTOR SCOLASTICO/ORIENTATORE
Il Decreto Ministeriale 63 del 5 aprile 2023 ha istituito il docente tutor e il docente orientatore, due nuove figure, definite professionali e specializzate, per seguire gli studenti delle classi dell’ultimo triennio delle scuole secondarie di secondo grado. Un po’ tardi, a rigor di logica, come messo in luce da più parti, se l’obiettivo dichiarato era anche quello di contenere la dispersione scolastica che avviene, di solito, a inizio ciclo. Per essere precisi, tale figura era già presente in molte scuole superiori dove, ancora adesso, a inizio anno, è prassi assegnare ai docenti gruppi di ragazzi con il compito di seguirli individualmente, in termini didattici e personali, di stabilire colloqui, individuare eventuali criticità, farsi portavoce nel consiglio di classe delle varie risultanze, tenere rapporti costanti con le famiglie e essere di supporto nei casi di riorientamento.
Ora, tale funzione è stata normata e definita nelle sue sfaccettature: ogni tutor, nominato a conclusione di un corso di formazione, ha ricevuto in consegna gruppi di studenti (fino ad un massimo di 50) che ha seguito prevalentemente in termini di orientamento. Lo scopo è quello di motivare alla ricerca e scoperta delle proprie potenzialità utili per il futuro di studi o professionale. A supporto, il Ministero ha messo a disposizione la Piattaforma Unica per studenti e famiglie, dove reperire strumenti e informazioni utili in tal senso. Clou dell’iter è la predisposizione dell’E-Portfolio, (in realtà introdotto come Portfolio dalla Riforma Moratti 2004- 2005,) che ha l’obiettivo di spingere gli studenti a ragionare e dare senso alle esperienze effettuate in un processo di formazione in fieri alla ricerca della strada più in linea con potenzialità, desideri e attitudini personali. All’interno anche il cosiddetto “capolavoro” da ritenere punto culminante e focus orientatore.
A coordinare il tutto si è affiancato il docente orientatore, centro di riferimento per la ricerca delle varie attività di orientamento sul territorio, in termini scolastici o professionali, e in linea con il profilo in uscita degli studenti. In termini economici, i 150 milioni di euro erogati dal Ministero potevano essere integrati con finanziamenti dal PNRR e altri fondi, in particolare finalizzati a incentivare le discipline STEM. Se guardiamo al tesoretto accumulato dai docenti, scopriamo che il compenso variava da 2.850 a 4.750 euro per i tutor e tra 1.500 e 2.000 euro per il referente orientatore (uno per scuola). Ovviamente lordo, il che implica una significativa decurtazione al netto in aggiunta agli oneri che pesano sulla RAL. Qualcuno ha fatto conti più articolati ed è arrivato a stabilire cifre precise: 7,34 euro all’ora, considerando la formazione iniziale, quella in itinere, il lavoro con la classe e i singoli studenti. (Uil Scuola RUA). Queste due figure dovrebbero entrare a pieno titolo nel nuovo CCNL, secondo l’ipotesi sottoscritta lo scorso15 luglio.
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TUTOR PCTO
Questa figura è stata istituita con i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, previsti dalla Legge n. 145/2018 (Legge di Bilancio dello Stato,) che costituiscono un’evoluzione dell’Alternanza Scuola Lavoro.
L’ obiettivo di tale riforma è stato, non solo quello di contenere la dispersione scolastica, ma, soprattutto, dare modo agli studenti di avere un contatto diretto col mondo del lavoro e le sue modalità di funzionamento prima di esservi catapultati, spesso impreparati, al termine degli studi. In questo, e nell’avvicinamento a formule già sperimentate con successo in altri paesi d’Europa, consiste il valore evidente di questo elemento innovativo. In tutto ciò, Il ruolo del docente tutor PCTO, e della funzione strumentale che tira le fila del lavoro, è fondamentale per la riuscita del tirocinio e dovrebbe anche valorizzare il lavoro non convenzionale degli insegnanti, che va ben al di là di quello che è comunemente considerato l’impegno didattico. Il Tutor Pcto collabora nella progettazione e nell’organizzazione del percorso di ogni studente a lui affidato; segue l’alunno durante il tirocinio e garantisce che vengano rispettate le norme di sicurezza e le regole aziendali.
Come è facile intuire, il lavoro è corposo e deve fare i conti con una pesante burocrazia che impone la compilazione di una modulistica poco snella e l’uso di piattaforme digitali, non sempre funzionali, che richiedono una moltiplicazione esponenziale delle ore di lavoro. La retribuzione, forfettaria, è affidata alla contrattazione d’istituto. Per la precisione, A conti fatti, tra contatti con gli enti e le aziende che accolgono gli studenti, colloqui con gli stessi, predisposizione della documentazione e inserimento dei dati nella piattaforma dedicata, il compenso risulta ben al di sotto di un ipotetico salario minimo.
A cosa serve questa buricratizzazione?
Non a caso abbiamo scelto di focalizzare l’attenzione sulla figura del “tutor”, presente un po’ in tutte le salse a scuola e, spesso, con sovrapposizione di mansioni e progetti. Verrebbe da annunciare la grande novella: “il docente fa il tutor!”, termine che, etimologicamente (dal latino, ovviamente,) significa difensore, protettore, custode. Dunque, se l’insegnante sceglie di fare il tutor istituzionalizzato, riceve un certo compenso aggiuntivo. Ma lo deve dichiarare a lettere di fuoco; altrimenti, quello che fa nel suo lavoro tradizionale sembrerebbe non rientrare nelle attività di difesa, protezione, supporto dello studente.
Quante volte il docente si trova a parlare di orientamento, a supportare situazioni di fragilità individuali o collettive, a consigliare strade per il futuro lavorativo o scolastico, senza fregiarsi di alcuna investitura istituzionale. Forse, ora potrà dire di rivolgersi a figure ad hoc. Ma tutta questa burocratizzazione quanto giova al libero dispiegarsi della relazione con il singolo studente e con la classe? E con quale effettivo guadagno?
Il pagamento di queste prestazioni aggiuntive arriva sempre con un bel po’ di ritardo: solo a metà luglio sono stati finalmente accreditati alle scuole i soldi del Fondo per il Miglioramento dell’Offerta formativa (MOF), con i quali si andranno a pagare, tra l’altro, i docenti tutor e orientatori. Sempre tardi: i docenti erogano delle prestazioni che non sono mai tempestivamente riconosciute e pagate. Qualche altro esempio? La maturità e tutti i compensi accessori del FIS. Fatto ancora più grave: il TFR, per il quale è necessario aspettare anni prima di poterne godere, come se in pensione ci andasse un quarantenne…
In ultima analisi, si potrebbero razionalizzare e rendere più efficienti i meccanismi che presiedono al funzionamento della scuola, se a monte il lavoro dell’insegnante fosse riconosciuto e adeguatamente compensato, senza titoli accessori che mistificano quella che è la realtà del lavoro in classe. Con questo non si vuole dire che i colleghi tutor e orientatori non abbiano lavorato di più, ma si ha la percezione che molto potrebbe essere semplificato e condiviso da tutto il corpo docente senza distinzioni. Con un reale progresso di carriera, poi, certe attività potrebbero essere dedicate a docenti con più anni di servizio adeguatamente rivalutati economicamente.
Un po’ in controtendenza? Viste le modalità di accesso al Pnrr, nel quale va ascritta anche la scuola, e la tendenza molto attuale di lavorare a progetto, sembrerebbe di sì. Se questo trend è inarrestabile, parrebbe opportuno, almeno, distinguere ciò che effettivamente dà un valore aggiunto da ciò che rientra nella prassi già in atto che, con la smania di ammantarsi di nuovi titoli, rischia la deriva burocratica.
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