Imprese, quando la tecnologia incontra la tradizione nel Sud del mondo

Viviamo in un epoca di sfide climatiche enormi. Nel provare a invertire le prospettive più drammatiche, tra legislazioni (sovra)nazionali, iniziative specifiche e abitudini degli individui, una via efficace è rappresentata dalla collaborazione tra Paesi sviluppati e popolazioni indigene del Sud del mondo. Non si tratta di un percorso del tutto nuovo, ma è rinnovata la prospettiva nell’attuarlo, passando da una visione estrattiva a una rigenerativa. Come sta facendo, tra gli altri, Smily Academy. Il progetto presentato durante la COP28 di Dubai da Rituaj Phukan, coordinatore della rete nazionale indiana di Al Gore e fondatore del Indigenous People’s Climate Justice Forum, e dalla prof.ssa Claudia Laricchia, prima non indigena a presiedere lo stesso Forum, ha l’obiettivo di sviluppare iniziative imprenditoriali in grado di beneficiano le parti coinvolte, realtà produttive e comunità indigene.

Si legge sulla sue pagine di presentazione del progetto, l’intento di realizzare un “cambiamento trasformativo allineando giovani di tutto il mondo, imprese e tecnologie avanzate alla saggezza delle popolazioni indigene”. Questo si è tradotto in concreto a fine marzo, grazie alla collaborazione dei partner coinvolti, nella prima settimana (prima fase di quattro momenti successivi) di formazione svolta in India. Ad Assam, nel nord-est del Paese, si sono ritrovate quattro delegazioni internazionali di aspiranti imprenditori con un progetto da trasformare in eco-impresa, coninvolte direttamente sul campo e a contatto con la realtà del luogo.

Imprese e comunità indigene

Parlando di rischio ambientale, sono sempre più evidenti le differenze di responsabilità e lo sbilanciamento dell’impatto del cambiamento climatico sulle aree del mondo. E sta crescendo la coscienza del bisogno di passare da una visione di opposti (noi/loro, qui/lì) a un’ottica circolare, in cui ognuno, cioè, gioca un ruolo e sostiene (o dovrebbe) un carico specifico sulle spalle.

Proprio in questo tipo di prospettiva si inserisce il lavoro di Smily (acronimo di Sustainable Mindset and Inner Level Youth) che, ispirata dalle proposte del suo fondatore, Jadav Moloi Payeng, attivista indiano conosciuto come The Forest Man, punta a creare sinergie concrete aziende-popolazioni locali/indigene. Partnership di supporto concrete attraverso cui scorire e sviluppare potenzialità di business. “Adottando” un progetto, si costruisce insieme alle comunità locali – invece di sfruttare luoghi e risorse ambientali e umane. Concettualmente, si lavora per non lasciare la responsabilità dell’85% della biodiversità globale solo sulle spalle di quel 5% della popolazione mondiale rappresentato dalle comunità locali, bensì per dividere (almeno in parte) i carichi e le opportunità.

Non per forza un percorso senza ostacoli. Chiarisce infatti la prof.ssa Laricchia che, oltre alla posizione nel Forum dei popoli, è presidente e co-funder di Smily: «sulla carta l’occidente la teoria la sa e compie flebili tentativi di cambiamento in questa direzione: SDGs dell’agenda 2030, per esempio, o gli ESG a livello aziendale. Tentativi (però) palliativi se pensiamo che mancano cinque anni al collasso climatico. Nella pratica, l’applicazione di questo concetto è dolorosa, faticosa, non affatto comoda», prosegue.

Si tratta di effettuare «un passaggio mentale. Cambiare il pianeta è cambiare noi stessi e questo è un lavoro duro. Non è uno slogan istituzionale che diciamo a un pubblico di un evento o in una riunione tra colleghe. Da questo punto di vista i binari sono ancora paralleli: coscienza e business. Smily li unisce. Come fa con il pensiero sistemico rispetto alle cause della crisi climatica».

Qualche risultato già visibile o la nascita di sinergie? «Sì! 40 organizzazioni pubbliche e private hanno adottato 21 progetti di eco-impresa in oltre 20 settori. Adottare un progetto ora significherà implementarlo insieme, certi che salire sulle spalle dei giganti – e cioè su aziende e organizzazioni strutturate – ci permetterà di rendere ulteriore realtà questo ribaltamento degli attuali modelli di sviluppo. Del resto, se rendessimo competitivi questi progetti nel vecchio sistema avremmo vanificato tutta la metodologia per creare una alternativa. Il mercato si aspetta ancora una volta di premiare solo progetti sbilanciati su una delle 4 dimensioni della sostenibilità, e cioè quella economica. Se le nostre eco-imprese funzionassero con questa prevalenza, allora non sarebbero eco-imprese. Sarebbero di nuovo un esercizio di mentalità estrattiva. Creare sistemi di open innovativation di un approccio sistemico indigeno è quello che sta per succedere.»

Imprese e giovani

Un futuro di collaborazione armonico tra tecnologia e tradizione già presente nell’appello ad agire di The Forest Man: «Invito le tribù indigene di tutto il pianeta da abbracciare questa sfida. Invito le popolazioni non indigene ad adottare i nostri progetti e a nutrire questa visione».

Commenta in merito Valentina Parenti, presidente e co-fondatrice di GammaDonna, no-profit italiana di sostegno e promozione della crescita delle donne nel mondo dell’impresa: «abbiamo scelto di unire le nostre forze in risposta alle sfide planetarie che, come imprenditrici, imprenditori ed esseri umani, non possiamo più ignorare». In concreto, l’associazione sta «coinvolgendo le eccellenze imprenditoriali della nostra rete, incrociando i loro interessi economici, ambientali, sociali e valoriali con quelli delle 20 eco-imprese formate da Smily. È un esercizio scalabile di intelligenza collettiva che fa bene al futuro».

A ben vedere, questo progetto interessa potenzialmente 400 milioni di persone indigene presenti nei Paesi rappresentati dalle tante ONG di Smily Academy. E guarda da vicino, in particolare, i giovani – il “for Youth”, del nome. Come Matteo Salerno, co-fondatore 21enne di Smily Academy, che conferma quanto questo percorso rappresenti «La prova che la semplicità di sognare in grande e la tenacia di lavorare sodo per realizzare tali sogni, è tutto quello di cui abbiamo bisogno. La prova che se doniamo un sogno, un progetto e noi stessi, otteniamo grandi risultati». A prescindere dall’età. Anzi, proprio la collaborazione intergenerazionale, continua, gli ha permesso di restare coi piedi per terra – incidendo poco sul suo stile di vita da studente di ingegneria a Bologna, ma molto dal punto di vista interiore. 

Rispetto al tema anagrafico però aggiunge come «quando mi dicono di appartenere alla GenZ, rispondo che la GenZ non esiste. Credo sia finito il tempo di clusterizzare le persone in categorie. Ormai la trasformazione digitale, le tante crisi che affrontiamo con le spalle ancora fragili, le poche opportunità e speranze che da esse derivano, ci confondono. Posso dire che i miei amici hanno consapevolezza della crisi climatica. Che le persone che incontro negli ambienti di coetanei hanno consapevolezza ma anche tanta voglia di normalità, non necessariamente di occuparsene, con un po’ di stanchezza per doverla subire».

Profitto e sostenibilità: non più due opposti

Il progetto Smily punta a costruire ponti tra due sponde, oggettivamente molto distanti. Da una parte le istanze delle popolazioni indigene e, dall’altra, le necessità delle aziende di “fare” business”.

Spiega Stefano Denicolai, professore di Innovation Management all’università di Pavia e head di ITIR (Institute for Transformative Research): «Ad oggi non esistono modelli consolidati per eco-imprenditori che vedono la saggezza indigena e la mentalità rigenerativa quali driver per generare prosperità e crescita esponenziale. Troppe volte profitto e sostenibilità ambientale-economica sono visti come alternative. Nulla di più errato: l’obiettivo deve essere attuare la “magia” di generare profitto proprio grazie ad un approccio ben più etico e straordinariamente più sostenibile. Altri si vedono un controsenso, noi la chiamiamo “innovazione”. Serve quindi fare ricerca per meglio comprendere quali siano le condizioni per rendere ciò possibile, quali gli indicatori da considerare per osservare questi fenomeni in modo concreto ma dalla giusta prospettiva, come ampliare la definizione di sostenibilità verso nuove dimensioni.»

Ricerca che deve trasformarsi presto in azione. Ci troviamo di fronte, continua infatti Denicolai, a «una necessità non oltre procrastinabile, oltre che (a) una straordinaria opportunità di innovazione trasformativa. Per farcela non dobbiamo essere miopi chiedendo solo alle popolazioni indigene di cambiare: a monte, dobbiamo – tutti insieme – ripensare radicalmente il design della ricerca e tecnologia anteponendo l’accelerazione degli impatti e il pensiero sistemico».

Da qui in avanti

Chiusa la settimana di formazione in India, il percorso per coniugare biodiversità, comunità indigene, tecnologia e cultura d’impresa procede e punta a espandersi. Lo racconta la vice presidente della Forest Man Foundation e figlia di Jadav Moloi Payeng, Munmuni, sottolineando come parte da qui «Un nuovo modo di vivere l’eredità enorme e planetaria di mio padre. Finora eravamo concentrati nelle foreste, nell’educazione, nella disseminazione, ma l’incontro con Claudia ha cambiato tutto. Con lei per la prima volta abbiamo iniziato a ragionare di eco-imprese», come le 21 nate dall’esperienza formativa di marzo.

Oggi, continua, «Siamo pronti a fare quello che abbiamo fatto in India, in Africa con Cikod, cioè il centro di trasferimento del sapere indigene e organizzazione trasformativa, ed in Brasile con Ivani Pauli nella foresta amazzonica.»

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