Videogiochi, si moltiplicano le opportunità per le sviluppatrici

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L’industria dei videogiochi ha un problema di diversity. Lo ha in termini di rappresentazione nella scelta dei protagonisti. Ma lo ha anche verso chi quei giochi li crea.

A ben vedere, esiste una certa parità tra uomini e donne tra i giocatori. Nel 2020 in Asia (regione che da sola copre il 48% della revenue mondiale del settore) le gamer rappresentavano tra il 40 e il 45% del totale. Negli USA, dati 2021, hanno raggiunto il 45%. E anche in Italia si attestano su livelli simili: le giocatrici sono circa il 44%, 6,8 milioni dei 15 milioni totali, in un comparto che nel 2021 ha fatto affari attorno ai 2.243 miliardi di euro. Con una crescita di quasi il 3% rispetto ai 12 mesi precedenti.

Ma la parità nell’industria finisce un po’ qui. “Ci son problemi di sessismo e razzismo di vecchia data”, spiega Christopher Mitchell, Head della School of Creative Technology alla Vancouver Film School. E persistono stereotipi radicati in particolare sul lato sviluppo. “Per anni c’è stato sicuramente un boys club nell’industria, generato dall’alto. I fondatori delle aziende parlavano agli investitori e, coscientemente o meno, assumevano principalmente manager uomini che a loro volta preferivano una forza lavoro maschile. Il fatto che questa fosse una strategia improduttiva e dispendiosa a malapena passava per la testa di quei fondatori. Oggi è diverso in molte società, ma basta guardare le news per leggere di scandali che fanno traballare le aziende. Per questo un’educazione alla diversity, delle assunzioni che tengano conto dell’equilibrio di genere e, infine, la costituzione inclusiva delle società è critica per il comparto”.

Mitchell, uno dei promotori di The Women in Game Design Scholarship, borse di studio offerte annualmente dalla Vancouver Film School (VSF) in collaborazione con The Coalition, Blackbird Interactive e A Thinking Ape, ha chiaro cosa aiuterebbe la riduzione della forbice in termini di parità. “Il gap deve essere attaccato da tutte le azioni (che si intraprendono). Dai livelli junior, attraverso formazione, borse di studio, supporto al posizionamento (lavorativo). Dal livello intermedio, attraverso azioni di mentoring intenzionale da parte di sviluppatori che già lavorano nel settore. Dalla dirigenza, che deve stabilire principi di assunzione paritari, con target chiari.”

Le sue convinzioni derivano dall’esperienza diretta: “A essere onesti, io stesso sono rimasto cieco al problema per la prima parte della mia carriera (da game developer, ndr) mentre beneficiavo grandemente del privilegio che mi era concesso. Quando ho iniziato a insegnare game design, ho visto la realtà delle classi che a quel tempo favorivano pesantemente, per numero, i ragazzi. Ma quello che mi ha impressionato di più è stata di una ragazza arrivata alla VSF durante una precedente versione della campagna Women in Game Design. Raccontava come crescendo lei e il fratello avevano un computer. Se teoricamente entrambi ne erano proprietari, in pratica era del fratello. Lui spendeva ore davanti allo schermo. Lei doveva chiedere il permesso per usare quello che era anche sua proprietà. La carenza di accesso agli strumenti è (un’altra) sorta di pressione sottile che tiene le donne lontane dall’informatica e dal game developing”.

L’omogeneità dei vertici

Oggi non è solo o troppo un problema di modalità e tempo d’uso degli strumenti. A “tenere lontani” profili che non siano quelli di maschi bianchi dallo sviluppo dei videogiochi in particolare, contribuisce una cultura non aperta alla diversità insieme a una carenza di modelli di riferimento con cui, magari, fare rete. “È un po’ come con i vecchi cerotti ‘color pelle’ che andavano bene solo per chi ha tonalità caucasiche”, chiosa Mitchell.

Se è vero che la situazione sta cambiando, il rischio di esclusione, se non proprio di azioni ostili fino anche a molestie vere e proprie, per le donne o gli sviluppatori appartenenti a minoranze è ancora alto. A soffrire di una condizione di grande omogeneità sono in particolare, come in altri settori economici dopotutto, i vertici delle aziende, i fondatori e gli investitori: posizioni appannaggio tutt’oggi soprattutto maschile. Questo nonostante la convinzione diffusa, espressa anche da Christopher Mitchell, per cui “aziende sane rispecchiano la società tutta. Non fatta per il 75% da uomini. È un equilibrio. Fino a che una compagnia non lo raggiunge, paga costi nascosti di produttività, opportunità e creatività”.

Fa eco a questa che è una situazione comune in un po’ tutto il mondo, Fabio Cristi, game producer freelance italiano. “Nei quasi 15 anni passati all’interno della game industry qui in Italia ho notato un’attenzione sempre maggiore all’inclusione. Quando ho iniziato nel 2008, le presenze femminili all’interno dei team si potevano contare sulle dita di una mano negli studi più grossi. Ed erano ancora praticamente assenti in quelli più piccoli. Nel corso degli anni la situazione è migliorata notevolmente e si sono visti sempre più inserimenti all’interno dei team. Prettamente in ruoli artistico/creativi, ma anche in quelli tecnici – seppur con una prevalenza molto minore”.

In modo simile a quanto avviene in tutti gli altri settori, è chiara anche per l’industria dei videogiochi la necessità che gli uomini siano i primi alleati nel percorso di inclusione. Mitchell ha una ricetta in tre fasi da proporre a quelli che vogliono fare la differenza e innescare il cambiamento. “Primo passo: renderti conto del privilegio che ti ha permesso di arrivare dove sei oggi. Secondo passo: inizia a leggere e conoscere i fatti reali riguardanti il divario (di genere) nelle assunzioni e i modi impercettibili in cui i luoghi di lavoro vengono così danneggiati per tutti. Terzo passo: riconosci che farti carico di un comportamento più etico nelle tue politiche di assunzione / formazione non è un costo, ma un’opportunità”.

Rendere visibile l’invisibile

Secondo Cristi in Italia nel processo verso ambienti più inclusivi “merito va dato anche all’aumentata presenza di scuole e accademie dedicate al game development sul territorio italiano, che hanno offerto la possibilità di formarsi a molte più persone rispetto al passato. Nei team con cui sto lavorando e nelle scuola con cui collaboro, il rapporto tra i due sessi si è ribilanciato molto rispetto al passato. Anche se chiaramente quella dei videogiochi rimane comunque un’industria a ‘trazione maschile’, visto che nelle professioni tecniche il bilanciamento è comunque molto meno marcato rispetto a quelle artistiche“.

Le developer tra il 2019 e il 2021 sono passate dal rappresentare il 24% del totale degli sviluppatori al 30%, mentre i nonbinary, genderfluid o transgender sono passati dal 5 al 8%, secondo i dati Statista 2022. E anche se le donne hanno svolto ruoli chiave almeno dagli anni ‘70 partecipando in prima linea allo sviluppo di titoli dal successo mondiale (da Tic-Tac-Toe, a Anial Crossing: New Horizon, Halo 4 o Tomb Raider, in particolare dalla versione del 2013) restano ancora oggi poco visibili.

Lo sa bene la gamer, trasformata in attivista, Tanya DePass. Da donna queer di colore che, raccontando sul Guardian del movimento #ineeddiversegames, esploso a partire da un suo tweet del 2014 sosteneva: “molti dentro e fuori l’industria hanno iniziato a condividere le ragioni per cui sentivano il bisogno di migliore rappresentazione nei videogiochi: perché avevano bisogno di vedersi, volevano che le loro figlie potessero giocare come personaggi in cui si identificavano. Perché volevano poter creare personaggi con capelli naturali […] In tanti mi hanno detto: vedere quello che fai mi fa capire che ho un posto nell’industria anche io. Ci sono così tante persone che non vedono mai gente come noi attorno. Non ci vedono sul palco di E3*. Solo il fatto di essere visibili, offre ad altri l’idea che c’è posto anche per loro”.

Non solo per seguire lo script della trama ma proprio nel costruirla. E magari renderla più inclusiva e variegata.

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* La Electronic Entertainment Expo (da cui E3) è una fiera di videogiochi organizzata annualmente dal 1995 a Los Angeles dove sviluppatori ed editori mostrano al pubblico titoli in uscita, prodotti e novità.

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