Tappa fondamentale nella battaglia per la parità salariale in Gran Bretagna. La Corte Suprema ha confermato, infatti, il valore legale della richiesta di parità retributiva di genere da parte delle dipendenti della catena della grande distribuzione Asda. La sentenza potrebbe ora portare a una richiesta di risarcimento di 500 milioni di sterline.
Secondo la sentenza emessa dalla corte londinese, gli stipendi di cassieri e addetti al rifornimento degli scaffali – ruoli occupati principalmente da personale femminile – possono essere commisurati con quelli, meglio retribuiti, degli addetti ad altre mansioni ad appannaggio prevalentemente maschile. Pur non stabilendo un automatico diritto alla parità di genere, il verdetto di fatto consente ai 44mila dipendenti dei supermercati Asda di avviare una vertenza per superare la differenza salariale e ottenere eventuali risarcimenti per il passato. La posizione dell’azienda è di attesa rispetto agli sviluppi: “La sentenza si riferisce alla prima fase di un caso molto complesso che richiederà diversi anni per giungere alla conclusione”.
L’esito del caso – la più grande richiesta di parità di retribuzione nel settore privato del Regno Unito – potrebbe avere ripercussioni per altri 8.000 lavoratori di altre catene, tra cui Tesco, Sainsbury’s, Co-op e Morrisons, anch’essi coinvolti in controversie sulla parità di retribuzione con i loro datori di lavoro.
La parità salariale in Uk
Nel 2020 l’Equal Pay Act britannico ha compiuto 50 anni. In gran Bretagna, quindi, da decenni è vietato riconoscere alle donne un salario inferiore a quello degli uomini per lo stesso lavoro. Nonostante questo, il divario retributivo di genere (cioè la differenza percentuale tra la retribuzione oraria media per uomini e donne) persiste. Proprio per questo il governo richiede alle aziende britanniche con più di 250 dipendenti di pubblicare i dati sul divario retributivo di genere. Nel 2019 i risultati hanno messo in evidenza che il divario si è allargato a favore degli uomini. Non solo. Il 78% delle più grandi aziende in Gran Bretagna ha segnalato un divario.
I dati sono consultabili su un sito pubblico del governo, che permette a ciascuno di cercare la propria azienda e di mettere anche le aziende a confronto fra loro.
La legge italiana
Le stime di Eurostat indicano che in Italia la componente discriminatoria del gender pay gap è pari al 12 per cento. Nel nostro Paese, naturalmente, la legge prevede la parità retributiva fra uomini e donne. Non solo. E’ in vigore anche l’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198 (ex art. 9 L. 125/91), modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione. Articolo che prevede che:
«Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta».
Dati che però diventano difficili da reperire e consultare e che nel caso siano disponibili, lo sono in modalità aggregata e non per singola azienda come invece avviene in Gran Bretagna.
L’esempio islandese
In Islanda la parità di stipendio tra uomo e donna è diventata legge nel 2018: aziende e uffici pubblici con più di 25 dipendenti devono, infatti, dimostrare che le donne sono pagate quanto i loro colleghi. Per chi non adempie alla norma è prevista un’ammenda fino a 50mila corone islandesi (pari a circa 450 euro) per ogni caso personale di violazione dell´obbligo di parità retributiva a pari qualifica. Il governo della premier Katrin Jakobsdóttir ha concepito un’applicazione graduale della norma. Le più grandi istituzioni e aziende avevano tempo fino al 2020, quelle più piccole per dimensioni fino al 2025.