Il suo contributo è stato fondamentale per quella che è stata chiamata la foto del millennio. La prima immagine di un buco nero. Uno scatto che ha immortalato quell’anello, un turbinio di luce infuocata che rivela l’ombra di un’enorme massa di materia, un gigante nero al centro di una galassia conosciuta come M87, distante 55 milioni di anni di luce.
Katie Bouman, esperta di hardware e software, ha sviluppato l’algoritmo cruciale che ha aiutato a ideare il metodo capace di catturare uno dei misteri del cosmo. Un’impresa a lungo considerata impossibile. I buchi neri sono estremamente distanti e compatti, quindi scattare una foto a uno di loro non è un compito facile. Inoltre, i buchi neri per definizione dovrebbero essere invisibili, sebbene possano emettere un’ombra quando interagiscono con il materiale che li circonda.
L’immagine di questa giovane donna, compirà trent’anni il prossimo mese, che guarda al pc la foto che entra di diritto nella storia, è diventata virale sui social media grazie a un tweet dell’influencer canadese Tamy Emma Pepin retwittato anche da Alexandria Ocasio – Cortez. La giornalista di Nature, Flora Graham, ha invece affiancato la foto che ritrae Katie a un altro scatto epico: quello che ritrae Margaret Hamilton, la scienziata che sviluppò il software del programma spaziale Apollo.
Katie Bouman è una delle donne che lavorano nel team di Event Horizon Telescope, rete internazionale di telescopi che hanno prodotto una incredibile mole di dati analizzati poi dai dei supercomputer. Più di 200 ricercatori al lavoro, un gruppo di ricerca che annovera anche due scienziate italiane: Mariafelicia De Laurentis dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare; Elisabetta Liuzzo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Bologna. Ci sono anche altri tre scienziati del nostro Paese: Luciano Rezzolla, direttore dell’Istituto di Fisica Teoretica di Francoforte, Roberto Neri dell’Istituto di radioastronomia millimetrica di Grenoble e Ciriaco Goddi dell’Università di Leida.
A conti fatti, comunque, la maggior parte dei colleghi di Katie sono uomini. D’Altra parte al mondo solo 3 ricercatori ogni 10 sono donne. Non è però questo che la rende in qualche modo meritevole di un applauso. Lei stessa ha giustamente parlato di un progetto che è stato “uno sforzo di squadra“. Quello su cui ci dovremmo soffermare è l’emozione sul suo volto di fronte al risultato della ricerca.
Katie Bouman è ancora all’inizio della sua carriera. Ha lavorato al progetto durante un dottorato al MIT (Massachusetts Institute of Technology) in computer vision e presto inizierà un lavoro come docente assistente al Caltech (California Institute of Technology). La sua passione è “inventare modi per vedere o misurare cose che sono invisibili“. Non si è messa dei limiti. Si è impegnata, ha lavorato sodo.
Ma di sicuro quella fotografia è già un gran risultato, per lei e per tutte le giovani che hanno il sogno di lavorare nella scienza o nella tecnologia. E non parliamo della foto dell’ombra del buco nero. Parliamo della foto che ritrae lei. E’ quella da mostrare alle giovani, per raccontare loro di Kate, esperta di tecnologia, informatica e ingegneria elettronica che non conosceva nulla sui buchi neri sino a quando si è unita a quella che è diventata la sua squadra sei anni fa. Ed è riuscita a mettere a segno una scoperta epocale.
«È entusiasmante» ha detto. E questo è anche il suo messaggio per la prossima generazione, per le donne che potrebbero considerare di intraprendere carriere come la sua. «Finché sei entusiasta e sei motivata nel tuo lavoro, non dovresti mai sentire di non potercela fare».