Quando gli immigrati siamo noi. Riflessioni di un’italiana

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Le parole sono importanti e sono anche pietre (rubando l’espressione a Carlo Levi) e sia forse per il momento storico che per mia condizione attuale di italiana all’estero, di recente il confronto tra due termini continua a saltarmi agli occhi e a offrirmi lo spunto per una riflessione. Da essere sinonimi expat e immigrato sono diventati etichette distinte che offrono immaginari specifici a chi le usa o le legge. Un expat (contrazione dell’inglese expatriate), è più facilmente identificato come un/una professionista proveniente da un altro Paese, generalmente occidentale, dalle alte qualifiche di studio ed esperienza, magari ricollocato dall’azienda in cui lavora e, quindi, in qualche modo “di passaggio”. Di contro, la parola immigrato ha invece una connotazione più negativa e si applica, un po’ troppo facilmente di solito, a chi viene da parti del mondo meno sviluppate per cercare condizioni di vita migliori (ma chi non lo fa quando emigra?), se non proprio per salvarsi la vita, fuggendo da zone di conflitto, povertà estrema od oppressione.

Mi rendo conto di quanto questa riflessione appaia un mero esercizio semantico, il binomio però mi colpisce ancor di più alla luce dei recenti dati che paragonano i numeri dell’emigrazione italiana attuale a quelli degli anni ‘70.  Visto allora quanto siamo sempre di più “noi” a essere “gli altri”, anche la distinzione conscia o inconscia che si fa di semplici termini, può aiutare a vedere diversamente le argomentazioni sull’immigrazione, oggi focalizzate soprattutto sullo scontro tra accoglienza e rifiuto, più che sulla condizione di chi le vive.

Certo quello dell’emigrazione/immigrazione è un tema che ha implicazioni e corollari molto più ampi di un semplice confronto tra termini che, poi in particolare è un discorso qui “del nord” o dei Paesi anglosassoni (ne hanno scritto, per esempio, riviste come l’americana The Atlantic o la BBC). Ma alle parole associamo immagini con cui capiamo e descriviamo la realtà e, in questa fase storica più che mai, anche solo la connotazione, l’uso di una rispetto a un’altra può diventare strumento di discriminazione o inclusione, etichetta per definire un insieme.

Entro un certo limite, etichettare può essere utile a dare una prima organizzazione mentale, un contesto, a quello con cui veniamo in contatto – a me qui capita di riceverne, per esempio, in materia di abitudini alimentari o abbigliamento. Il confine però è davvero sottile e se in alcuni contesti non è che il risultato di anni di ironie (come l’italiano associato a pasta, pizza e mandolino), in ben altre situazioni può arrivare a estremismi violenti e pericolosi.

Anche la civilissima Olanda, Paese di grande immigrazione capace di produrre casi di integrazione positiva come il sindaco di Rotterda in carica da 10 anni (Aarivato qui come emigrato dal Marocco da adolescente), conosce poi insoddisfazioni e mal di pancia che si traducono, ad esempio, nel successo del PVV, partito di estrema destra, nazionalista e populista, e del suo leader.

Certo non si risolvono contrasti importanti e battaglie delicatissime solo cambiando il vocabolario che si usa. Ma la speranza è che offrendo prospettive alternative questo possa per lo meno sollecitare domande diverse perché, in definitiva, interessa anche il futuro di tutti quei figli, come i miei, che oggi, sempre più numerosi, possiedono il passaporto dei loro genitori ma crescono in una nazione di cui non sono cittadini “ufficiali”.

  • ELENA |

    Gli altri eravamo noi, ma questo non cambia ció che la realtá é, ovvero che i paesi di accoglienza avrebbero fatto volentieri a meno degli immigrati e sarebero stati, in molti casi, meglio.(Vivo da 10 anni all´estero).

  • Carlo |

    I termini non discriminano niente, sono utilizzati per dare la parvenza all’occidentale di essere un essere superiore e quindi di non sentirsi migrante come l’africano, ma in sostanza stanno allo stesso gioco di chi vuole che le persone siano meno legate al proprio territorio, alle proprie radici e alla propria storia. I migranti non hanno mai scritto una storia, non hanno mai costruito città, né mai le costruiranno essendo per forza loro senza alcuna forza o potere per farlo. La cultura non è quella di dare al proprio figlio un master per emigrare, la cultura é quella di costruirgli intorno il miglior ambiente lavorativo nel proprio territorio, il viaggio per turismo avrà sempre modo di farlo.

  • Giovanni Minghelli |

    Un paese che non offre piu’lavoro decente ai giovani è un paese che non ha futuro.Non esiste ascensore sociale,non esiste meritocrazia.E’ chiaro quindi come non vi siano prospettive, e,di conseguenza,la cultura vincente sia quella della furbizia e della sopraffazione.

  • Luca Letizia |

    A prescindere dal discorso sui termini e la contrapposizione con l’immigrazione verso l’Europa, io credo ci sia bisogno di riformulare il concetto stesso di immigrazione/emigrazione nel contesto degli spostamenti della forza lavoro all’interno dell’UE in modo da smettere di vederlo come un aberrazione quando invece – almeno su carta – è uno degli obbiettivi principali dell’Unione stessa. Partendo da questa riformulazione, bisogna poi procedere a rendere il sistema legale, economico ed amministrativo che dovrebbe garantire la libertà di movimento effettivamente tale. Un esempio? Rendere seamless il processo di integrazione dei contributi pensionistici pagati in più paesi dell’UE nel corso di una carriera.

  • Matteo |

    In poche parole, senza perdere il senso della discussione:Le e migrazioni non sono tutte uguali, se Qualcuno o tanti entrano nel mio paese senza passaporto con l,inganno senza essere stati invitati con cultura molto diversa e voglia addirittura di cambiare quella del paese invaso, con pretesa di essere mantenuti, alloro dico NO e respinti con tutte le nostre forze.

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