L’americano Steve Mc Curry (Philadelphia 1950) è certamente uno dei più amati fotografi di reportage dei nostri giorni: le sue luminose immagini, colme di colori, volti, luoghi sono celebrate in numerose mostre in molti Paesi, attirando folle di visitatori. Non fa eccezione la rassegna Steve Mc Curry, Icons, attualmente in corso a Pavia, nella suggestiva cornice delle Scuderie del Castello Visconteo: organizzata e prodotta da ViDi, con Civita Mostre e SudEst57 in collaborazione con la Fondazione Teatro Fraschini e il Comune di Pavia – Settore Cultura, la mostra permette un’immersione nel mondo del grande reporter attraverso 100 scatti, selezionati tra i suoi più celebri e noti.
“Io amo il ritratto. Amo studiare i comportamenti umani e il modo come gli uomini interagiscono fra loro” ci dice Mc Curry, ecco perché, appena entrati in mostra, ci troviamo occhi negli occhi con una carrellata di personaggi incontrati ai quattro angoli del mondo dal nostro infaticabile globetrotter con macchina a tracolla: un nomade dal nord dell’India, mago e pastore del popolo rabari, fiero nella sua mise dai capelli e barba colorati d’arancio con l’henné o un vecchio monaco buddhista, da 70 anni nell’antichissimo monastero tibetano di Lhasa, che ci scruta attraverso la ragnatela di rughe incise sul volto – mappa di una misteriosa sapienza che non smette di affascinarci -; una ragazzina afgana nel campo profughi pachistano di Peshawar, dagli occhi inermi e trasparenti, verdi come la sua delicata veste da piccola madonna adolescente o la leader dell’indipendenza del Myanmar e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi sono solo alcuni esempi di questi incontri mozzafiato.
Mc Curry affronta con fiducioso entusiasmo l’eterna sfida del ritratto e si avventura nelle profondità di ciò che Leonardo chiamava i moti dell’anima: i volti che si affidano alle sue immagini – in piani ravvicinati, alla stessa altezza del nostro sguardo, senza particolari superflui a distogliere l’attenzione – hanno spesso un magnetismo particolare e un’incredibile energia concentrata negli occhi, come quelli ormai leggendari della sua più celebre icona, Sharbat Gula, piccola profuga afgana fotografata nel 1984 sempre a Peshawar, diventata memorabile copertina del “National Geographic” (giugno 1985).
In mostra un video racconta come Mc Curry, con un’equipe della celebre rivista inglese, siano riusciti, nella primavera del 2002, nell’impresa di rintracciare la ragazza fotografata 17 anni prima, dando così finalmente un’identità a quello sguardo fermo, che la severa scuola del dolore non era riuscita a spegnere, raccontando al mondo come sia possibile vivere la propria vita anche attraversando avversità spaventose.
Nelle sale della mostra pavese alcune postazioni video permettono di sentire dalla viva voce di Mc Curry come nascano e siano portati avanti sul campo i suoi reportage: è estremamente interessante ascoltarlo raccontare per esempio l’enorme importanza di costruirsi una squadra di collaboratori fidati, perché “la tua vita spesso è nelle loro mani”.
Il valore fondamentale del rapporto umano è la bussola etica di Steve Mc Curry, che traspare nell’empatia che le sue foto comunicano: anche quando ci mostrano drammi terribili c’è in esse una sorta di splendore, una forza misteriosa che si innalza, affidata magari ai toni mattone della luce al tramonto, che imbeve le pietre della città afgana di Herat, una distesa di distruzioni dove una famiglia è tornata, in un’irreale solitudine, per accendere un fuoco di fortuna e preparare la cena tra le diroccate mura di quel che resta della propria casa.
Mc Curry sa che nella fotografia sono importanti tanto la prontezza di riflessi quanto la pazienza, quest’ultima alimentata dalla fiducia che, trovato un luogo propizio per scattare, l’imprevedibile intreccio della casualità saprà offrire l’occasione giusta: è lì che il grande fotografo – discepolo ideale del sommo Cartier-Bresson – potrà cogliere il momento decisivo, come l’ingresso nell’inquadratura dell’uomo che corre e della sua lunga ombra proiettata dalla luce del tramonto, irruzione del movimento e della vita nello scenario quasi irreale nella sua maestosa e sconfinata bellezza del golfo di Rio de Janeiro.
Mc Curry è cittadino del mondo, di casa in tutti i continenti, ma è evidente il suo amore particolare per l’Oriente: l’Afghanistan è un luogo caro al suo cuore – qui ha fondato l’associazione no profit Imagine-Asia dedicata ai bambini del paese -, ma in generale è affascinato dalla particolare atmosfera di molti luoghi dell’estremo Oriente. Ecco perché non fatichiamo a immaginarcelo sull’Inle Lake in Birmania (Myanmar) “uscire con i pescatori prima dell’alba, pagaiare con loro scivolando sull’acqua”. Magari qualche volta, chissà, senza scattare neanche una foto…