Il 2017 è stato un anno a due velocità. L’economia italiana è in ripresa e si sono generati nuovi posti di lavoro che hanno fatto lievemente salire il tasso di occupazione. Ma per i ragazzi non è stato fatto ancora abbastanza e sono diversi gli indicatori che ci portano a chiederci se l’Italia sia o meno un Paese per giovani.
Cominciamo dal sistema educativo, così complesso che piuttosto che avvicinare i giovani al lavoro li allontana. Infatti in Italia abbiamo una percentuale di laureati molto bassa rispetto al resto dell’Europa e in generale il nostro percorso di studi è più lungo e non incentiva i ragazzi ad entrare nel mondo del lavoro. Solo il 29% dei giovani sceglie il corso di laurea prendendo in considerazione le statistiche occupazionali, le competenze dei giovani sono ritenute adeguate dal 70% di scuole e università, ma solo dal 43% degli studenti e dal 42% dei datori di lavoro. Questo genera un disallineamento tra competenze richieste dal mercato del lavoro e competenze possedute dai ragazzi che ha come conseguenza la disoccupazione giovanile. Prendendo in considerazione come motivazione alla scelta della facoltà solo i propri interessi e passioni, i ragazzi scelgono indirizzi che non sono in linea con l’offerta di lavoro.
Anche i dati Ocse confermano la stessa fotografia più ampia sul mercato del lavoro: c’è uno “skill mismatch” tra competenze acquisite dai lavoratori e le competenze richieste dal lavoro. I sovraqualificati, ovvero le persone che hanno un set di competenze più ampio rispetto al lavoro richiesto, sono il 12% del lavoratori italiani.
Eppure i posti vacanti, cioè quelli per cui un’impresa sta cercando attivamente un candidato, sono lo 0,8% che in valori assolti rappresenta un numero molto elevato. Per esempio in un settore come quello dell’Ict, che dovrebbe essere uno dei favoriti per l’occupazione giovanile, l‘Ue stima che entro il 2020 ci saranno fino a 800mila posti vacanti e, già oggi, in sette dei Paesi membri mancano al mercato 150mila professionisti del settore.
Questo percorso ad ostacoli genera un fenomeno chiamato NEET, giovani che non studiano e non lavorano. In Italia ci sono oltre 2,2 milioni di NEET, cioè giovani di 15-29 anni che non studiano e non lavorano (Not in education, employment or training) pari al 24,3% della relativa popolazione, un’incidenza molto alta soprattutto se paragonata ai livelli europei (14,2%) e nettamente superiore a Germania (8,8%), Francia (14,4%) e Regno Unito (12,3%). Le ragioni profonde per cui i giovani non trovano lavoro sono da ricercarsi, fra le altre cose, nella mancanza di dialogo tra il sistema educativo e quello economico. Il dialogo tra i giovani e il mondo del lavoro deve essere continuo ma ci sono tre momenti più delicati: l’orientamento ai percorsi professionali, lo sviluppo costante delle competenze e la connessione dei talenti al mercato del lavoro.
Per ovviare alla discrepanza fra domanda e offerta nel mondo del lavoro, sono state introdotte una serie di misure, tra cui l’introduzione dell’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro. Una misura che non sempre ha ricevuto plausi e che ha fatto discutere nei casi in cui i ragazzi vengano utilizzati per sostituire i lavoratori. Sarà strategico il nuovo piano varato dal MIUR che ha realizzato linee guida più strutturate e una piattaforma digitale nazionale per collegare studenti ad imprese ospitanti. Inoltre il nuovo sistema prevederà un feedback continuo da parte degli studenti, chiamato “bottone rosso” per segnalare esperienze non formative.
Un altro dato che mostra la difficoltà del nostro paese a trattenere i giovani è il numero di ragazzi che scelgono di lasciarlo e trovare lavoro in un altro paese. Nel 2016 ben 124.076 persone sono espatriate, in aumento del 15,4% rispetto al 2015. E ad aumentare sono soprattutto i giovani: oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno, ben 48.600, ha tra i 18 e i 34 anni (+23,3%) che hanno scelto destinazioni come il Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia, Brasile e Usa. La mobilità dei giovani ha un grandissimo valore di apprendimento e reciprocità che in un certo senso deve essere favorita ma a patto di essere una scelta volontaria e non obbligata.
Infine il dato più allarmante resta la povertà giovanile. A dirlo è il recente Rapporto sulla povertà della Caritas Italiana che restituisce una fotografia preoccupante del nostro Paese: la povertà infatti è un fenomeno più pervasivo e diffuso rispetto agli scorsi anni. Inoltre, come si diceva, il dato allarmante è che le persone più penalizzate non sono solo gli anziani, i pensionati, come nel passato, ma i giovani. E mentre in Europa la povertà giovanile è in declino, in Italia è in aumento (dal 2010 al 2015 si riscontra un incremento del 12,9%). Nel 2015 (ultimo anno disponibile per questo tipo di dato fornito da Eurostat) spicca la presenza di oltre 117 milioni di europei a rischio di povertà (23,3% della popolazione complessiva legalmente presente nell’UE a 27 paesi, al primo gennaio 2016). In Italia, il numero totale di persone nello stesso tipo di condizione è di 17 milioni 469mila (28,8% della popolazione), di questo esercito quasi 2 milioni sono giovani.
Se vogliamo crescere come persone, cittadini e come Paese, dobbiamo investire partendo dalle nuove generazioni con politiche attive che forniscano strumenti concreti per realizzare le aspettative delle nostre figlie e dei nostri figli.