Il Governo giapponese non perde il vizietto di proporre come Patrimonio dell’Umanità siti che sono interdetti a metà dell’umanità, ossia alle donne. L’ultimo caso è quello della remota isoletta di Okinoshima, situata tra la costa occidentale del Giappone e la penisola coreana.
L’Unesco dovrebbe decidere in proposito a luglio nel suo prossimo meeting in Polonia, dopo la raccomandazione positiva già arrivata a maggio dall’apposita commissione consultiva: non sono mancate le voci che chiedono di respingere la proposta di Tokyo, a meno che anche le donne d’ora in poi siano ammesse.
Per la verità, l’isoletta è praticamente disabitata: ci sono solo le strutture del Munakata Taisha Okitsumiya, un tempio shintoista. E solo il 27 maggio di ogni anno poco più di 200 uomini sono ammessi a un festival che coincide con il giorno della grande battaglia navale di Tsushima, nella quale, in acque vicine, la flotta giapponese distrusse quella russa arrivata dal Baltico. Dal 1958 il festival “memorializza” le vittime dell’episodio culminante della guerra nippo-russa, vittime di entrambe le parti. Gli uomini partecipanti stanno per una notte nella vicina isola di Oshima (distante 50 km), poi partecipano a un rito purificatorio con l’acqua, denudandosi, prima di sbarcare e rendere omaggio al tempio. Nella richiesta all’Unesco, è stato sottolineato che sono stati rinvenuti ben 80mila manufatto nei siti archeologici dell’isola, poi registrati come tesori nazionali.
Una volta tanto, poi, la dichiarazione Unesco come World Heritage non appare finalizzata a spronare il turismo, visto che non sembra possibile che le regole ferree di questa isola “sacra” vengano modificate. Qui sta il punto: non ci sarà un’invasione di turisti, ma tutto il genere femminile continuerà a essere bandito, per i consueti motivi storici che trovano radici religiose/superstiziose. Il che non fa onore al Giappone, che dovrebbe smetterla di trincerarsi dietro al fatto che altri siti Unesco sono off-limits per metà del genere umano, a partire dal Monte Athos in Grecia.
IL CASO OMINE . Il precedente discutibile riguarda il Monte Omine, nella prefettura di Nara, dichiarato patrimonio dell’Umanità nel 2004 come parte dei “Sacri siti di pellegrinaggio nella catena montuosa Kii”. Anzi, lì è peggio: gli uomini possono andarci quando vogliono, le donne mai (sia giapponesi sia non giapponesi). Alla base del monte, cartelli bilingui sottolineano la proibizione. Una associazione per i diritti civili portò lì nel 2004 un gruppo di “trangender” per porre un po’ ironicamente un interrogativo molto serio. Nulla successe: del resto i giapponesi rispettano le regole e anche i transgender non si inoltrarono sui sentieri dell’Omine.
Certo, rispetto al passato, qualche progresso c’è: un tempo anche la cima del Monte Fuji era vietata alle donne. Peraltro in Giappone ci sono altre aree da cui le donne sono escluse o quasi: da molti “capsule hotel” all’ingresso sul ring del sumo, per non parlare dei pregiudizi che rendono difficile (anche se non impossibile) diventare chef di sushi.
LENTISSIMI PROGRESSI. Il governo del premier Shinzo Abe dichiara di aver messo tra le sue priorità il miglioramento della condizione femminile, in particolare facendo della “Womenomics” uno dei cardini dell’Abenomics. Non stupisce più di tanto: è un governo conservatore che chiede alla donne sia di fare più figli sia di lavorare di più, in modo che non ci sia troppo bisogno di aprire le maglie dell’immigrazione. Ma su alcuni punti resta decisamente maschiocentrico. La faccenda dell’Unesco è quantomeno una riprova di scarsa sensibilità. E fa il paio con il fatto che sia stato impedita l’emanazione di una legge di riforma del sistema imperiale: tutto per impedire alla radice un dibattito sulla possibilità di una successione per linea femminile al Trono del Crisantemo. La nuova legge sull’abdicazione imperiale è una tantum e si applicherà quindi solo all’attuale imperatore Akihito, che ha chiesto di potersi dimettere.