Alla notizia che Image Comics sosterrà i diritti LGBT* dedicando al Pride le copertine di The Walking Dead (da cui è tratta l’omonima e famosissima serie televisiva) e alcuni dei suoi fumetti più importanti, un amico mi ha chiesto: Perché? Perché proprio al Pride? E’ più che giusto inserire personaggi apertamente gay, ma le serie in questione hanno poco in comune con l’immagine di lustrini e paillette che è spesso associata a quell’evento. Non sarebbe meglio far passare un’immagine più ‘normale’?
L’occhiata torva che mi ha restituito quando gli ho fatto presente che il suo commento aveva un ché di omofobico, mi ha confermato che non è così scontato riconoscere l’omofobia, misurarla, nemmeno per chi appartiene alla comunità LGBT*. Che cosa sia l’omofobia è noto: è la paura, l’avversione (‘irrazionale’ come riporta Wikipedia) per chi ha un orientamento sessuale rivolto a persone dello stesso sesso. E’ un termine in cui spesso, per semplificazione, è riassunta anche l’avversione verso altri soggetti che fanno parte della comunità LGBT*, ad esempio le persone transgender e i bisessuali. Il fatto che si sappia cosa sia, che gli sia stato dato un nome, è già un traguardo. Così come il fatto che esista e sia stata istituzionalizzata dall’Unione Europea una giornata contro l’omofobia, il 17 maggio di ogni anno. Ma come si riconosce l’omofobia? Come si misura? Qual è l’unità che ne definisce la portata, l’entità?
Certo, di fronte a una realtà come quella Cecena, dove gli omosessuali vengono perseguitati, torturati e uccisi, è facile catalogare uno Paese come omofobo. Un Paese dove uno zio si sente legittimato a buttare suo nipote dal nono piano, così da lavare l’onta e riabilitare il buon nome della famiglia. Iran, Nigeria, Somalia sono tutti Paesi al vertice delle classifiche sull’omofobia, inutile prendersi la briga di misurare. L’omofobia impera, i sudditi eseguono. Allo stesso modo è facile riconoscere l’omofobia nei comportamenti espliciti delle persone, a prescindere che si trovino in un paese apertamente omofobo o meno. Come è accaduto qualche giorno fa con due violenti aggressioni a Bristol e a Glasgow nel Regno Unito o come nel caso tutto milanese di Michele e Marcello, picchiati a sangue dal branco lo scorso gennaio all’uscita dalla discoteca; vicenda che ha visto il recente arresto degli aggressori, tra i quali purtroppo si contano anche dei minorenni.
Dove però il fenomeno non è così macroscopico ed esplicito, riconoscere l’omofobia non è così semplice. Perché opera in modo subdolo, sotterraneo, cresce silenziosa pronta a germinare quando se ne presenta l’occasione. In questi casi è più complicato stanarla o misurarla perché influisce sui nostri pensieri, sui comportamenti, sulle convinzioni in maniera spesso irrazionale (appunto) e irriconoscibile. ‘Nostri’ certo. Non è un errore di battitura ma un dato di fatto. Spesso si fa l’errore di pensare che un omosessuale non possa avere comportamenti o atteggiamenti omofobici. Invece è assolutamente vero il contrario. La società, la cultura, la tradizione, la religione hanno impiantato questa paura irrazionale in ciascuno di noi. E ciascuno di noi ci deve fare i conti, ogni giorno. Come con la paura del buio. Pochi che ne sono immuni. Io per esempio no.
Perché ognuno di noi in fondo ha un’idea precisa di cosa significhi essere gay, lesbica, trans o bisessuale, quale sia la maniera ‘giusta’ di esserlo, che cosa un gay dovrebbe o non dovrebbe fare, come si dovrebbe o non dovrebbe vestire. Come ci piacerebbe che il mondo LGBT* fosse o non fosse visto o interpretato. Non è una cosa fuori dal mondo succede a chiunque in qualunque campo. L’annosa questione del ‘vorrei un Pride in giacca e cravatta’ o ‘il Pride non mi convince perché dà un’immagine sbagliata del mondo gay tutta lustrini e piume di struzzo’. Non è omofobia questa? Perché forse i gay in giacca e cravatta hanno più dignità e diritto di esprimersi di quelli vestiti di viola e turchese e paillette? (e non ho nulla contro le giacche e le cravatte che mi stanno benissimo, mentre il viola è il turchese mi sbattono da matti).
Si chiama ‘omofobia interiorizzata’, chi si occupa del mondo LGBT* la conosce molto bene ed è altrettanto pericolosa. Perché porta a fare distinzioni assurde, crea minoranze nelle minoranze e, oltretutto, dà spazio ai detrattori, a quelli che cominciano la frase con “non ho niente contro i gay ma…”. Allora non stupisce che l’amministrazione comunale di Cosenza abbia, negli scorsi giorni, rifiutato il patrocinio al Pride adducendo come scusa la volontà di non spettacolizzare la preferenza sessuale “spesso ostentata attraverso modalità stereotipate e conformistiche”. D’altra parte, viene precisato, la decisione è stata presa nel rispetto delle perplessità rappresentateci da “tanti amici gay”. Tutti quegli ‘amici gay’ che stanno conducendo una vita tranquilla proprio grazie alle battaglie portate avanti a partire dal 1969, dal movimento dei Pride, in assenza del quale – mi vien da dire – ora sarebbero chiusi in casa, infelici, avvolti nelle loro giacche e nelle loro cravatte.
Torniamo alla domanda iniziale quindi. Come si misura l’omofobia? La mia risposta è che non si può misurare o, meglio, non ha senso misurarla. L’omofobia si può solo combattere. Si possono porre le basi perché questa paura irrazionale possa venire affrontata e superata. E come? Parlandone raccontando storie che possano far comprendere che non c’è nessun motivo di avere paura di chi ha gusti o inclinazioni diverse dalla nostra, andando ai Pride per comprenderli e capirne spirito e significato. Come quando crescendo si comprende che nel buio della nostra stanza non si celano mostri orribili, così conoscendo a fondo le storie, le vite delle persone LGBT*, anche la nostra società crescerà e quella paura irrazionale, verrà , a poco a poco, superata.