Un bonus “nido” da 90 euro al mese per i nati nel 2016, che ancora non è possibile chiedere e che non si può spendere per retribuire una babysitter. Un bonus “mamma domani” una tantum da 800 euro, in vigore dal 4 maggio 2017 (che spetta ai nati dal primo gennaio). Un voucher per pagare nido o babysitter, fino a un massimo di 600 euro al mese, per chi rinuncia, nei primi mesi di vita del figlio, all’astensione facoltativa dal lavoro. E’ affidato a queste misure il rilancio della natalità in Italia, in calo nel 2016, per il sesto anno consecutivo, a 1,34 figli per donna, in media.
Queste misure hanno regole e modalità attuative diverse. Sono stabilite da leggi, che necessitano di decreti attuativi (emanati con mesi di ritardo) e di istruzioni operative dell’Inps per tradursi in pratica. Sono misure non strutturali, che non dialogano tra loro, e che non hanno una incidenza duratura nel bilancio e nell’organizzazione familiare. Peraltro, bisogna scegliere tra un aiuto e l’altro: chi ottiene il bonus nido non può sfruttare in dichiarazione dei redditi la detrazione al 19% dall’Irpef delle spese per il nido fino a 632 euro (120 euro di sconto effettivo), né può richiedere, per gli stessi mesi, i voucher per la babysitter (o l’asilo) alternativi al congedo parentale. E questo può essere per evitare l’accumulo di più agevolazioni in capo a una stessa famiglia. Resta però l’impressione di tanti aiuti in ordine sparso, che non cambiano la situazione complessiva delle mamme, soprattutto di quelle che lavorano, magari a tempo pieno.
E’ un po’ come i due giorni di congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente, che passeranno a quattro giorni nel 2018. A questi si aggiungerà, sempre nel 2018, un giorno ulteriore di astensione facoltativa del padre, in sostituzione di una giornata di astensione obbligatoria della madre (nei primi tre o quattro mesi di vita del figlio). Serve davvero? Redistribuisce il carico di lavoro che grava sulle mamme e sui papà? In realtà, no. Costa allo Stato ma è una misura poco più che simbolica.
Non sarebbe forse il caso di pensare a una riorganizzazione dei carichi familiari che consentisse alle donne di mantenere il proprio lavoro, con i suoi orari, anche dopo la nascita dei figli? Di considerare la maternità e la paternità come un investimento sociale del quale non possono farsi carico solo le aziende con le iniziative di conciliazione vita-lavoro? A una madre che lavora a tempo pieno sarebbe utile un aiuto strutturale (ad esempio in forma di sconti fiscali, ma duraturi), per retribuire una babysitter. Perché spesso il nido non basta.
Ma fino a che l’unico ammortizzatore quotidiano per le mamme che lavorano sarà rappresentato dai nonni (chi ce li ha), il rilancio della natalità e del lavoro femminile resteranno una chimera.