Quando studiavo scienze della comunicazione, nella materia “comunicazione di massa” a un certo punto ci dettero una regola per “pesare” il valore mediatico della morte. Più è prossima a noi geograficamente o culturalmente, più pesa. Detta in parole semplici e brutali: 1 morto nel tuo vicinato pesa quanto 10 nel tuo Paese e 100 nel tuo continente, e via così: più sono lontani dal nostro gruppo di riferimento, meno i morti “pesano”.
Da allora sono passati oltre 20 anni. La globalizzazione ha portato abbigliamento, alimentazione, trasmissioni tv a essere disponibili ovunque in modo simile. Ma il peso dei morti non sembra essere cambiato. Sui quotidiani italiani oggi poco spazio o nulla per gli oltre 200 morti di domenica in Iraq. Civili, donne e tanti bambini uccisi da terroristi islamici.
Da noi c’era troppo da dire sulle tangenti nei ministeri, sulla brexit, sull’attentato in Bangladesh che ha colpito “noi” e sulla nostra onnipresente politica locale. Non c’era spazio per “gli altri esseri umani”: quelli che non ci assomigliano, si vestono diversi, hanno la pelle più scura e hanno la responsabilitá di vivere altrove, lontano lontano da noi e dalla luce del nostro minuscolo palcoscenico.
Questa è la storia che ci facciamo raccontare e che ascoltiamo supinamente, ogni giorno: le storie che leggiamo disegnano il mondo che per noi conta, e la pesa dei “morti che contano” ne fa parte.