Vessillo rosa (piccola storia di una camicia)

Dunque sono riuscito a fare il cambio di stagione a sole 24 ore dall’arrivo del caldo. E’ notizia. Di solito trascino la cosa per settimane, tiro giù una giacca e un paio di pantaloni leggeri appena si alza la temperatura, poi una camicia due giorni dopo, un’altra giacca a una settimana di distanza per ritrovarmi all’ultimo minuto a dover tirar fuori una cosa da indossare subito. Ma ovviamente puzza ancora di antitarme alla lavanda.

Da sudatore professionista ho una distesa di camicie di lino accumulate negli anni: sono loro che che mi salveranno la vita di qui a metà settembre. Bianche, azzurre, a righine bianche e azzurre, tutte destinate ad essere infradiciate, a puzzare indecorosamente, ad essere lavate almeno una trentina di volte ciascuna nel giro di tre mesi, prima che sia loro concesso il riposo invernale. (me le immagino arrivare stremate a fine settembre, felici di entrare nell’armadio e poi scalpitare più o meno dalla metà di aprile)

Poi c’è Lei, la Rosa.

Non ricordo quando l’ho comprata e dove, credo una quindicina di anni fa in un outlet con i miei genitori (mio padre ne ha una uguale), ma Anna e io l’abbiamo scelta casualmente come vessillo contro gli stereotipi di genere. Credo di aver iniziato io. Mi par di ricordare che Giulio (all’epoca avrà avuto 7 anni) si stesse lamentando per un paio di pantaloncini o una maglietta che avevano una righina rosa, nell’ansia di marcare la distanza del suo gruppo di maschi-con-clava da quello delle femmine-coi-fiocchetti. Poi ho visto la sua faccia cambiare espressione quando gli ho detto: “Oh, guarda che io ho una camicia rosa”.

Qua ci vuole un inciso bello corposo: non sto dicendo che il tema del rosa sia una cosa fondamentale per i destini dell’umanità e della parità di genere e che ci sono cose più importanti. In ordine sparso

  • nello Yemen ci sono bambine che vanno in sposa a uomini all’età di 8 anni. In Afghanistan metà delle “spose” ha meno di sedici anni.
  • la quasi totalità delle donne egiziane ha subito violenza o una qualche forma di molestia sessuale
  • in Mali, come in molti altri Paesi, la mutilazione genitale femminile è una pratica usuale e una donna su dieci muore di parto o in gravidanza
  • in Arabia Saudita (oltre a non poter guidare) le donne devono avere una figura che viene chiamata “guardiano”. Un parente che le deve tenere sotto controllo
  • in Europa e nel cosiddetto mondo occidentale ci sono forme più velate e per fortuna meno violente di discriminazione, dal gender gap al trattamento delle madri nel mondo del lavoro
  • quando dico “in Europa” parlo ovviamente e prevalentemente dell’Italia. Non per altro, ma chi se ne frega di quello che succede a San Marino, sto parlando del Paese nel quale vivo

Quindi le so queste cose e so che “ci sono cose ben più importanti del rosa”, ma il rosa è un alimentatore automatico di stereotipi di genere. Chiunque sia un genitore sa che sotto natale arrivano a casa dei cataloghi di giocattoli (pericolosissimi perché generano richieste ossessive e insensate) che vengono nettamente suddivisi in due: c’è una parte blu a base di automobili, robot ammazza tutti, palloni da calcio, maschere da spiderman, finti martelli e motoseghe e c’è una parte rosa, con i suoi micro aspirapolvere, micro ferri da stiro, micro cucine (ma c’è da giurarci che grazie all’esplosione dei reality culinari passeranno in campo neutro). Per far capire bene che ci sono cose da donne e cose da uomini. La discriminante è il rosa, maledetto.

Ma quando nasce il rosa come colore da donne? Pesco da internet questo articolo del Post dal quale apprendo che

  1. Nella relativamente lunga storia umana l’associazione rosa-donna è roba dell’ultima sessantina d’anni
  2. Che si è imposto definitivamente negli anni ’80 per strategie di marketing
  3. Che la scelta di colore fu criticata dal movimento femminista, ma più che altro perché – come dire – “bambinizzava” le donne. Non a caso qua trovate una foto di un bambino vestito di rosa e “da femmina”, se così si può dire. Giulio sarebbe inorridito.
  4. Infatti fu salutato con gioia l’arrivo di Barbapapà, che è rosa. Barbamamma è nera, invece. (*Nota a margine mia: colori a parte Barbapapà e Barbamamma hanno ruoli ben definiti e molto tradizionali, lei spesso cucina e lui spesso fa lavori da maschio e anche i barbabebè sono molto anni ’50, come impostazione).

Dunque il rosa è un costrutto sociale? Un professore italiano di psicologia che lavora negli Stati Uniti sostiene di no. A conclusione di questa analisi Marco Del Giudice scrive:

“La convenzione rosa-blu potrebbe in ultima analisi dipendere da giudizi innati correlati alla percezioni diverse nello spettro dei colori tra i due sessi”

Di certo una correlazione eccessiva può essere rischioso. In questo studio, per esempio, si dimostra che maggiore è la caratterizzazione di sesso di una campagna contro il cancro al seno, minore è il coinvolgimento delle donne: vedere rosa spinge a donare di meno e a farsi controllare di meno.

Giova ricordare, infine, che nel maschio sport del calcio (che non è per signorine, ricordiamolo) il Palermo ha una divisa rosa. E che ci sono fior di studi sui colori utilizzati da Francis Scott Fitzgerald in quello straordinario romanzo che è il Grande Gatsby, a partire dal completo rosa che lo stesso Gatsby indossa a un certo punto del romanzo. Taluni lo vedono come segno di distinzione di classe: vuole mostrare la sua ricchezza, sottolineando che non proviene da un mondo “understated” della gente di buona famiglia; altri ci vedono l’opposto del rosso: non passione, ma amore, non violenza, ma dolcezza e così via.

Sono stato fin troppo lungo, lo so. E forse un colore o una camicia non meritano tanto. Perché poi non è il colore, ma come viene usato, a cosa viene associato. Se veramente la tesi di Del Giudice fosse vera, l’associare il rosa a cose considerate “femminili” sarebbe ancora più pericoloso in termini di creazione di stereotipi. Per concludere: in sostanza potrebbe non essere il rosa in sé, ma il rosa in noi e l’uso che se ne fa a fotterci.