L’Italia è tra i pochi paesi europei che fanno del congedo di maternità un “diritto-prigione”. Cinque mesi di protezione totale e assoluta, quasi di isolamento, rispetto ai quali la donna non ha nessuna libertà di scelta. Per questo, quando il think-tank Volta, diretto da Giuliano Da Empoli, ha chiesto a me e al demografo Alessandro Rosina di ipotizzare delle proposte nuove, in un paper pubblicato quest’oggi, per far ripartire la natalità in Italia, ho subito iniziato a ragionare sul congedo di maternità.
La legge che ne definisce i termini è del 1971. Da allora la realtà lavorative è cambiata un bel po’ – per esempio la grande maggioranza delle persone ricade nella definizione di “knowledge worker”: lavoratore della conoscenza – ma la legge è tra quelle apparentemente “intoccabili”.
Guardando al resto dell’Europa, salta all’occhio che i paesi più evoluti sulla parità del genere (sì, il solito Nord Europa, ma per esempio anche il Regno Unito) definiscono congedo “di maternità” le settimane immediatamente prima e dopo la nascita del bambino. E quello è l’unico periodo, in media tra le 6 e le 10 settimane, che mantengono rigido: obbligatorio in modo predefinito.
Le settimane successive, anche se come tipo di diritto e di retribuzione coincidono ancora con il nostro congedo “di maternità”, vengono però chiamate “congedo parentale”. Non è un dettaglio: non tanto perché questo ne fa in automatico un diritto anche dei padri, ma anche perché indicano la protezione di un periodo “di cura” che non necessariamente si colloca sempre e completamente a ridosso della nascita del bambino.
E così il congedo diventa “flessibile”: il genitore può prenderlo tutto insieme oppure a settimane alterne, o con un part time orizzontale o verticale. Come è più comodo e necessario per la famiglia, previo un accordo col datore di lavoro.
E qui casca l’asino italiano. Perché in Italia qualsiasi aumento della libertà di scelta sembra fare spazio all’abuso: al “ricatto” che il datore di lavoro certamente farà, costringendo la madre lavoratrice a rientrare prima al lavoro. Questo è il tipo di obiezione che ho raccolto nelle interviste fatte per il paper: quasi tutti mi hanno detto “attenta! Se tocchi questo diritto apri la strada agli abusi!” Ma abusi ce ne sono già: ogni giorno. Dimissioni in bianco, avvocati che accompagnano le madri a dare le dimissioni il giorno del primo compleanno del loro figlio (perchè prima, per legge, “non si può”), donne che subiscono violenze psicologiche ripetute per il solo fatto di essere diventate madri oppure, anche senza nessuna violenza, carriere semplicemente interrotte o mai iniziate a causa (o nell’ipotesi) di una nascita.
Se il diritto resta un diritto pieno a 20 settimane; se la donna viene considerata in grado di sapere che cosa è meglio per sé e per la sua famiglia; se le aziende sono considerate rispettose della legge; se la legge viene fatta osservare e chi la infrange viene sanzionato (e l’onere della prova non ricade più così pesantemente sulla donna)… allora rischi e ricatti non devono fermarci dal far evolvere le norme perché si adeguino alla realtà.
Poi dobbiamo “renderle possibili”, certo: con i servizi, con la condivisione, con le risorse economiche, con la vigilanza costante e la capacità di sanzionare gli abusi.
Ma l’Italia non può più permettersi di giocare solo e soltanto, e sempre, in difesa.