Harriet Tubman, pseudonimo – come spiega Wikipedia – di Araminta “Minty” Ross, anche conosciuta come “Mosè della gente nera”, ieri diventa la prima donna afroamericana a comparire su una banconota Usa da 20 dollari: prende il posto dell’ex presidente Andrew Jackson, rimosso con sommo sdegno del candidato Donald Trump. Nata in schiavitù, da dove fuggì, si è poi spesa nel salvataggio di una settantina di amici e familiari nelle stesse condizioni. Dopo la guerra, militò per il suffragio femminile.
Non è mai troppo tardi, diceva il maestro Alberto Manzi quando insegnava l’italiano in tv a chi non era andato a scuola. E non è tardi per liberarsi di qualche stereotipo sui Paesi in via di sviluppo, e sulle donne che qui combattono – vincono – mille battaglie. Anche a proposito di democrazia: per fare un esempio, c’è un Paese nel quale il Parlamento è composto per il 64% da donne. In Nord Europa? No, in Ruanda.
Nel continente nero, alle falde del Kilimangiaro – tanto per fare il verso al motivetto tanto in voga negli anni Sessanta – è nata Wangari Maathai, prima donna africana a vincere il Nobel per la pace nel 2004. Mai sentita? È quella che ha lanciato l’idea di seminare uno, dieci, cento alberi che sono diventati la “Green Belt” che protegge l’Africa dall’avanzata dei deserti.
Ellen Johnson Sirleaf, imprenditrice ed economista, è la prima donna (nera) al mondo presidente di uno Stato: la Liberia. E’ anche la prima donna eletta come capo di Stato in Africa. E qualcuno ha mai sentito parlare di Alice Nkom? È la prima donna a essere diventata avvocato in Camerun, ma il suo nome è salito alla ribalta per avere difeso i diritti dei gay nel suo Paese. Noi, certo, preferiamo associare l’Africa ai barconi carichi di migranti, se va bene a qualche ragazzo che sfonda nel calcio. Eppure “Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo”, come recita un detto che compare sulla rivista bimestrale dei Padri Bianchi. Chi l’avrà detto, Bill Gates? No, Plinio il Vecchio.