Di tutto il periodo dell’attesa per adottare le mie figlie, la parte più difficile è stata, senza ombra di dubbio, l’ultimo periodo. Quello trascorso, nel nostro caso, tra il primo viaggio in Etiopia per conoscere le bambine e presentarci davanti al giudice etiope per la sentenza di adozione e quello in cui siamo finalmente tornati a prenderle per portarle in Italia, una volta pronti tutti i documenti. Solo tre mesi, in fondo, ma che ci sono davvero sembrati i più lunghi di tutto il periodo. Non vedevamo letteralmente l’ora di partire per andarle a prendere e iniziare la nostra vita di famiglia. Ogni giorno pesava come un macigno: il giorno del compleanno di mia figlia maggiore, per esempio, abbiamo festeggiato io e mio marito da soli e mandato gli auguri in Etiopia per farle sentire, come potevamo, che c’eravamo.
Il pensiero era costantemente rivolto a loro, anche se cercavamo di vivere la nostra quotidianità di vita di coppia. Ma, in realtà, non eravamo già più una coppia. Precisamente dal giorno in cui le avevamo conosciute, incontrate, abbracciate, vivevamo nel corpo di una coppia ma con l’“anima” di una famiglia di quattro persone. L’attesa, indefinita e sospesa per anni, si era finalmente concretizzata in quei due piccoli corpicini, con quei volti, quei sorrisi.
Tutto il peso di quell’attesa mi torna vivo, cocente, addosso, ogni volta che leggo dei genitori dei bambini della Repubblica Democratica del Congo. Loro aspettano dal settembre 2013, da quando sono stati sospesi i permessi in uscita dal Congo per i bambini adottati da famiglie straniere. Due anni e mezzo fa! Questo gruppo di genitori (perché di genitori si tratta, in quanto le adozioni sono state perfezionate e i bambini portano il loro cognome) si è costituito in un comitato e sul loro blog è possibile leggere e seguire la loro storia.
Il 28 marzo la giornalista di Radio24, Valentina Furlanetto, ha realizzato un’inchiesta sul mondo delle adozioni riportando un’intervista a uno dei genitori del comitato della RDC, Lorenzo Passeri. Le sue parole sono davvero toccanti: sono più di due anni che vede crescere i suoi figli esclusivamente via Skype, nel 2013 i due fratellini avevano 3 e 6 anni, ora ne hanno 6 e 9.
Altri genitori, da allora, non hanno avuto più contatti, né notizie. Anni in cui ogni giorno si teme che qualche imprevisto possa accadere o qualcosa andare storto, che qualche bambino si possa ammalare e non possa ricevere le cure adeguate, per esempio. Vite sospese, letteralmente congelate ma, soprattutto, quasi tre anni in più che questi bambini hanno vissuto senza una famiglia, senza un bacio della buona notte, senza una mamma e un papà che asciughino le loro lacrime, che li rassicurino quando fanno dei brutti sogni. Questa situazione dall’8 marzo scorso sembrava essersi sbloccata con la notizia del via libera delle autorità congolesi, che anche noi avevamo ripreso dalle pagine di Alley Oop. Ma a oggi ancora nessun genitore è partito per ricongiungersi con i propri figli, anche se è del 5 aprile la buona notizia che, grazie all’intervento della Farnesina, sarebbero stati sbloccati i visti di 43 bambini congolesi che dovrebbero arrivare a giorni in Italia accompagnati da persone designate dal governo locale. Non c’è un giorno in più ancora da perdere. Per i bambini. Per le famiglie.