Trudeau, il pragmatico con la bella faccia da copertina

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“’Mah, non lo so. Con quella faccia lì non può fare il leader di un partito, è troppo bello, figurarsi il primo ministro del nostro Paese. Justin starebbe bene sulla copertina di Rolling Stones, non su quella dell’Economist. E poi, con quel cognome che si porta dietro… È una zavorra. Ed è pure un peccato, perché il ragazzo ha stoffa, è sveglio. E ha un dono che hanno in pochi: quel carisma soft che piace tanto all’elettore medio, quello indeciso, l’ago della bilancia…’’. Siamo nel giugno del 2012 e Pat Gossage, una delle eminenze grigie della politica canadese, continua a nutrire dubbi su Justin Trudeau.

Il Partito Liberale è allo sbando, viene dal tracollo elettorale del 2011, che segue le sconfitte del 2006 e del 2008: nel giro di cinque anni da prima forza politica si ritrova ad essere partito marginale, con uno sparuto drappello di deputati in parlamento alla disperata ricerca di un leader che risollevi il partito, che gli dia una nuova identità. Col passare dei mesi, forse anche per mancanza di alternative, la candidature alla leadership liberale di Justin Trudeau prende forza. Prima la scalata al partito, poi la campagna elettorale e la clamorosa vittoria, inaspettata, del 2015. Il ragazzino, con quella faccia lì, diventa primo ministro. E nel giro di pochi mesi, diventa una star a livello internazionale.

Dai primi passi in politica nel 2008 ad oggi Trudeau ne ha fatta di strada. Il politico timido, impacciato, riservato di dieci anni fa ha subito una metamorfosi: spigliato, freddo e lucido davanti alla telecamera, il non più ragazzino ha iniziato a curare in modo quasi maniacale l’immagine – facendo tesoro della lezione del padre Pierre, più volte primo ministro e una delle figure più importanti della storia politica canadese – così come la presenza sui social media.

In poco più di due anni, dalla vittoria elettorale del 2015, quel carisma soft è scomparso, affossato anche in parte dall’improvvisa attenzione della stampa internazionale. Ecco allora che l’ingenua spontaneità degli esordi viene sostituita da un freddo calcolo, il messaggio in sé passa in secondo piano rispetto alla forma, e la priorità non è più il cosa dire, ma come dirlo. Diventa quindi fondamentale, per Trudeau, essere all’aeroporto Pearson di Toronto ad accogliere, davanti ai flash dei fotografi, la prima famiglia di rifugiati siriani accolti in Canada. O commuoversi, durante le scuse ufficiali fatte in parlamento a nome del governo canadese a tutta la comunità LGBTQ per le discriminazioni subite in passato. Lacrime che si sono ripetute durante la cerimonia di tributo in seguito alla scomparsa di Gord Downie, cantante dei Tragically Hip.

Ma il culto dell’immagine va oltre e passa anche attraverso i calzini di Star Wars ostentati al Bloomberg Global Business Forum, senza dimenticare la calamita che attrae il volto del primo ministro canadese agli smartphone di mezzo mondo, come ben documentato da Alan Hustak, che nella sua biografia non autorizzata lo definisce ”Canada’s selfie prime minister”.

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L’autore del post intervista il primo ministro canadese

Il politico Trudeau, dietro quella faccia da rockstar, è maledettamente pragmatico. E contraddittorio, come il Paese di cui è primo ministro. Justin è ambientalista, ma allo stesso tempo sostenitore della politica di ampliamento della rete di oleodotti dall’Alberta alla British Columbia e agli Stati Uniti. Justin è uno strenuo difensore del multiculturalismo istituzionalizzato dal padre Pierre, ma contemporaneamente fa muro a difesa dell’Express Entry, un meccanismo del sistema dell’immigrazione canadese che favorisce chi vuole emigrare in Canada dai Paesi anglofoni e francofoni a scapito degli altri. Justin ha fatto approvare la legalizzazione dal prossimo luglio della vendita, del possesso e del consumo della marijuana, ma allo stesso tempo ha chiuso la porta ai privati: solamente lo stato ci guadagnerà da quello che qui in Nord America hanno già definito come il business del nuovo millennio. Justin parla di pari opportunità, di aiuto delle classi più deboli, poi va in vacanza alle Bahamas nell’isola privata del miliardario Aga Kahn, fatto che gli è costato la reprimenda del commissario Federale all’Etica per violazione del conflitto d’interessi.

Insomma, siamo di fronte a un personaggio molto complesso. Che qui in Canada divide. Amato, osannato, invidiato, ma anche criticato, contestato, sbeffeggiato dalla critica più feroce. Uno che comunque in questi anni ha trovato la posa giusta per stare anche sulla copertina dell’Economist, insieme a quella di Rolling Stone.