Mafia, parla Civita Di Russo: l’«Indomita» che difende i pentiti

«Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare anch’egli un mostro. E se tu guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso guarda dentro di te». È con questa citazione di Friedrich Nietzsche che Civita Di Russo, penalista romana nota per aver assunto la difesa di molti collaboratori di giustizia, apre Indomita. Il libro, edito da Castelvecchi, ha un sottotitolo evocativo: “La mia battaglia contro le mafie”. In poco meno di centosessanta pagine, racconti e aneddoti condensano una parte dolorosa della storia di questo Paese.

Alley Oop ha incontrato l’avvocata Di Russo, che è anche vicecapo di gabinetto con funzioni vicarie del presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, nel tentativo di provare a capire com’è cambiata dai tempi di Falcone e Borsellino la lotta contro la criminalità organizzata.

I dati del ministero dell’Interno consegnano un trend in forte calo: dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per un decennio si erano fatte registrare oltre un migliaio di collaborazioni l’anno. Il 2022 ne conta 891 che nel 2023 scendono a 793. Che succede? Può dirci, coi suoi trent’anni di professione e battaglie legali, qual è oggi il rapporto tra lo Stato e i collaboratori di giustizia?
La storia dei collaboratori di giustizia nasce con Giovanni Falcone, quella è una legge che ha voluto lui. All’inizio lo Stato aveva investito tantissimo su di loro. Ne aveva capito l’importanza, perché attraverso i primi collaboratori aveva cominciato a comprendere i meccanismi della mafia; e non solo della mafia siciliana, anche della ‘ndrangheta reggina, della camorra napoletana, della sacra corona unita. Ma poi è come se, a un certo punto, avesse tirato i remi in barca. Diciamo che ha normalizzato il fenomeno. O che il fenomeno, nel corso del tempo, si è normalizzato.  C’è, per esempio, un problema molto serio che si pone negli ultimi tempi. I collaboratori hanno a disposizione, quando escono dal programma di protezione, la capitalizzazione, una somma di danaro che gli viene riconosciuta a seconda degli anni in cui sono stati all’interno del programma e per mezzo della quale possono ricominciare, avviare un’attività lavorativa. Sono, evidentemente, persone che hanno commesso dei reati, che hanno subito dei processi e che possono, per questo, anche avere degli ingenti debiti nei confronti dello Stato (per le spese di giustizia e per tanto altro). Si è deciso che questi debiti dovranno essere compensati con la capitalizzazione. Capite bene che una situazione del genere è sconvolgente: una persona si trova a uscire dal programma di protezione senza neanche avere mille euro per iniziare a vivere. Questo è un esempio che dimostra come i collaboratori oggi vengano abbandonati a loro stessi.

Civita Di Russo si riferisce alla legge che dagli anni Novanta garantisce un sostegno economico (parametrato all’importo di un assegno di mantenimento) ai “pentiti”, finalizzato al loro reinserimento sociale. Il governo Meloni, con una delibera del Viminale, sta tentando di applicare a quella capitalizzazione la norma che obbliga tutte le Pubbliche amministrazioni, prima di effettuare un pagamento sopra i 5mila euro, a procedere a una verifica sulla situazione d’inadempienza. Nel caso in cui il destinatario risulti avere debiti fiscali, sarà l’Agenzia delle entrate a soddisfare il credito dello Stato, aggredendo quelle somme. Lei parla di “normalizzazione”. E la posizione della magistratura amministrativa non è dissimile. Il Tar del Lazio con molta chiarezza afferma che quella intrapresa dall’Esecutivo non è la strada giusta: «L’amministrazione non può condizionare l’erogazione del beneficio alla previa stipula, da parte del collaboratore, di un accordo con l’Agenzia delle entrate per la restituzione rateale del debito (…) trattandosi di finalità non previste dalla normativa vigente». Ma dal suo punto di vista,  l’istituto della collaborazione di giustizia può dirsi ancora uno strumento indispensabile nella lotta alla mafia?
Assolutamente sì, ritengo che i collaboratori restino fondamentali: è un istituto ancora attuale ed efficace. Qualche tempo fa sono stata chiamata a parlare della nostra legislazione in Olanda, dove hanno capito da poco che la mafia non è un fenomeno solo delle nazioni del Sud dell’Europa, ma che riguarda anche loro. Lo stesso ministro della Giustizia francese Gérald Darmanin è spesso venuto in Italia per capire, studiare. Noi abbiamo una legislazione straordinaria sotto questo profilo, possiamo dire che se l’Italia fino a qualche anno fa esportava mafia, oggi esporta antimafia.

Si potrebbe fare di più?
Certo che si può fare sempre di più, e si può fare sempre meglio. Però in questo settore siamo un Paese all’avanguardia. La notizia di poche settimane fa è che uomini dell’intelligence statunitense stanno per arrivare in Italia per aggiornarsi, perché siamo maestri.

Facendo un passo indietro, ci spiega che cosa l’ha spinta verso la difesa dei collaboratori di giustizia?
Non è stata una vocazione. La mia storia è cominciata un po’ per caso, il giorno in cui fui chiamata a Rebibbia per una difesa d’ufficio mentre c’era un processo di criminalità organizzata. Sessanta imputati e un gip di Caltanissetta, venuto a Roma per ascoltare diversi collaboratori. In quell’occasione conobbi un pubblico ministero che da Trento si era trasferito in Sicilia subito dopo la morte di Falcone e Borsellino, come fecero molti altri magistrati per dare una mano. Mi domandò se avessi voluto assistere un collaboratore di giustizia e io accettai. Era il mio primo assistito e non mi voleva, perché ero una femmina.

Parliamo di figure indubbiamente controverse: come riesce a conciliare la necessità di difenderli professionalmente con il giudizio morale sulla loro storia criminale?
Partiamo dal presupposto che tutti hanno diritto alla difesa, che è costituzionalmente garantita. Il problema, certo, me lo pongo: queste sono persone che confessano il reato commesso, che narrano di delitti efferati, a differenza degli altri che di solito si professano innocenti. E questo è mestiere duro, che si fa ascoltandoli, ascoltandone molti, passando ore nelle carceri, nelle aule di tribunale. È  appunto ascoltandoli che ti rendi conto che devi attuare una specie di assenza di giudizio: devi  congelare il giudizio, sospenderlo, perché se li giudicassi non potresti più assisterli. Qualche volta mi riesce, qualche altra volta no. È  capitato quando è stato ucciso il figlio del collaboratore Di Matteo, rapito perché il padre aveva cominciato a collaborare con la giustizia. Rapito, incaprettato, ucciso e poi sciolto nell’acido.  Non mi sarei mai potuta alzare davanti a una corte d’assise e chiedere la diminuente della collaborazione di giustizia per un uomo che aveva assistito all’omicidio di un bambino senza fare nulla. Così, quando il Pm mi ha chiesto se avessi domande io ho rinunciato alla difesa. Altre volte mi chiedo: ma se gente come questa non fosse nata nello Zen di Palermo, ad Archi di Reggio Calabria, a Scampia avrebbe fatto la stessa cosa? Questa è la domanda che mi faccio da trent’anni e la risposta non la so dare.

I collaboratori di giustizia spesso provengono da contesti familiari e sociali profondamente segnati dalla criminalità. C’è un denominatore comune nella storia di questi uomini e queste donne?
Il denominatore comune c’è ed è il potere, e anche il denaro. Spesso è un potere che esercitano, indubbiamente, ma senza goderne: si nascondono nelle botole, nei bunker. Lo fanno per avere un riconoscimento, per arrivare, e per arrivare presto.

Ha difeso molte collaboratrici? Che ruolo hanno le donne, nella sua esperienza, in un contesto di collaborazione con la giustizia?
Sì, ho difeso anche collaboratrici di giustizia. Devo dire che ne ho difese diverse, ma non moltissime. Si pentono per motivi diversi le donne, però. Una in particolare mi è rimasta impressa. Ha cominciato a collaborare con la giustizia perché aveva scoperto un tradimento del compagno. Era l’ultima cosa al mondo che si sarebbe aspettata. Lei era il luogotenente di un grande boss della criminalità organizzata. Attraverso un linguaggio tutto loro, fatto di segni, si parlavano. E benché lui fosse al 41 bis, lei portava notizie fuori dal carcere. Dopo la scoperta del tradimento, non ci ha visto più e ha deciso di collaborare. Ha iniziato a raccontare tutto, ha addirittura abbandonando la famiglia, i figli che sono rimasti col padre. Ecco, io ho visto donne che hanno collaborato per grandi passioni, spesso per il grande amore nei confronti dei figli. Le donne collaborano insomma per motivi diversi. Perché, del resto, siamo diverse.

La solitudine sembra uno dei temi centrali del suo libro. Cosa significa essere soli in questo mestiere? Si tratta di isolamento professionale, sociale o esistenziale?
Questo è un lavoro che non puoi raccontare sempre, un mestiere di cui non puoi raccontare tutto e che perciò ti isola. La solitudine te la porti nel cuore.

Un’ultima domanda che forse è più una curiosità: che cosa c’è dietro la scelta del titolo?
“Indomita” è stata una decisione dell’editore. Ma devo dire che mi riconosco abbastanza in questa donna che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo.

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Titolo: “Indomita. La mia battaglia contro le mafie”
Autrice: Civita Di Russo
Casa editrice: Castelvecchi, 2025
Prezzo: 16,50 euro

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