Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito oltre 100 scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. #unite #rompiamoilsilenzio
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Nel 2002 mi ero laureata da un anno e feci domanda di ammissione al corso di sceneggiatura del Centro sperimentale di cinematografia, cercando di ignorare chi, intorno a me, diceva che era difficile, impossibile, e che bisognava conoscere qualcuno sennò non c’era verso di rientrare in una rosa di sei persone in tutta Italia.
“Io provo” rispondevo, “tanto a scrivere posso scrivere. Il guaio magari sarà l’orale”.
L’orale, per me sempre ostico e penalizzante, era per fortuna solo l’ultima di molte prove scritte, e quindi potevo pensarci più in là, se avessi superato quelli che venivano considerati da tutti gli ostacoli più consistenti: soggetti e proposte di adattamento. Così dopo averli scritti e riscritti maniacalmente e averli inviati attesi la risposta, che arrivò nel giro di qualche mese con una raccomandata che sapeva di futuro. Ero stata ammessa alla fase successiva di selezione e dovevo sostenere altre prove nella sede della scuola. Durata dei test: tre giorni.
A Roma non conoscevo nessuno così mi procurai l’indirizzo di una pensioncina a Termini, dove aveva soggiornato la mia migliore amica col suo fidanzato. Stavo per prenotare una stanza singola quando a sorpresa il mio ragazzo, Stefano, si propose di accompagnarmi. Gli spiegai che sarei stata impegnata tutto il giorno con gli esami ma mi assicurò che poteva fare il turista e la sera saremmo stati insieme. “Anzi, perché non mi fai leggere le cose che hai scritto?”. Anche se ero preparata all’idea di trascorrere tre giorni per conto mio, quell’offerta mi sembrò premurosa e la accolsi con gratitudine. Gli stampai le mie pagine e prenotai una stanza doppia.
La pensione si rivelò scalcagnata e piuttosto equivoca, cosa di cui la mia amica non mi aveva informato. D’altronde anch’io avevo altro a cui pensare e delle piastrelle del bagno rotte o del copriletto rabberciato m’interessava poco, sicuramente mi preoccupava di più quel film neorealista che sapevo di non aver visto o quel saggio su Petri che all’università non avevo mai letto.
“Bel posticino!” notò invece lui, passando in rassegna i difetti della stanza.
Gli feci notare che quello non era pensato come un viaggio di piacere.
“Ma tu pensi che ti prenderanno?” mi chiese.
“E’ molto difficile,” risposi.
“Vabbé, almeno non farai la fame in posti del genere…”
Il che era un modo di vedere le cose. Eppure ci rimasi male.
La mattina dopo mi alzai presto e nel viaggio in metropolitana mi confrontai con i gemelli, il Cervello dello Scritto e quello dell’Orale, che risiedevano nel mio cranio come due feti nell’utero materno: l’uno, il Cervello dello Scritto, pasciuto e attivo ai limiti dell’arroganza, l’altro, il Cervello dell’Orale, rachitico e confinato dal fratello in uno spazietto asfittico. Erano tranquilli, perché per due giorni avrebbero fatto quello che sapevano fare meglio: il Cervello dello Scritto avrebbe lavorato e il Cervello dell’Orale si sarebbe tenuto occupato col suo cubo di Rubik per placare l’ansia che sempre lo divorava.
Il che se non garantiva il successo limitava comunque i rischi.
“Com’è andata?” mi chiese Stefano al mio ritorno.
“Mi pare bene, dovevo fare l’analisi drammaturgica di un film. Me la sono cavata”.
“Quindi non era così impossibile!” mi disse con quella che mi parve un’ombra di preoccupazione.
“Per ora no. Ma è solo l’inizio, non significa niente”.
Sembrò sollevato. Possibile? Stavo esagerando?
Mi sforzai di accantonare quella che aveva tutta l’aria di essere una paranoia dovuta alla tensione. “Hai letto i racconti?” gli chiesi.
“Non ancora, sono stato in giro. Ma ho prenotato un bel posto per cena…”
Quella sera passeggiammo per il centro di una Roma maestosa e languida, che ci tenne impegnati ad assorbire bellezza. “Che città!” ripetevamo di continuo, con i nasi per aria e i piedi che tastavano i sanpietrini. Li sentivo sconnessi, più di quanto non fossero.
Il giorno seguente alla seconda prova scritta non solo feci bene, ma mi divertii anche. La consegna era un racconto dialogato di tono ironico, e attorno a me vedevo ragazzi concentratissimi, altri che ridevano delle proprie trovate, altri che si alzavano e cercavano ispirazione passeggiando nel chiostro. Immaginai che potessimo diventare compagni, scrivere insieme, ridere delle reciproche battute. “Vuoi darti una calmata?” mi disse a quel punto una vocina stizzita, quella del Cervello dell’Orale, che agitatissimo brandiva il suo cubo “Nemmeno una faccia sono riuscito a completare!”. Per non sentirlo rificcai la testa sul foglio.
“Insomma?” mi chiese Stefano la sera, davanti a un piatto enorme di maccheroni, “è andata bene o no?”. Era la terza volta che me lo chiedeva e la terza che cambiavo discorso. In realtà sapevo di aver fatto un buon lavoro, e un cauto ottimismo cominciava a farsi strada, ma mossa da un sesto senso lo tenni per me.
“Mi pare di sì” dissi cercando di minimizzare, “ma bisogna vedere gli altri. Magari sono più bravi”.
Lui annuì, poi chiese: “Ma se ti prendono devi trasferirti per forza a Roma?”
“Sì, la frequenza è obbligatoria”.
“Per tre anni?”
“Tre anni” gli risposi. Lui rimase in silenzio per un attimo.
“E poi torneresti?”
“Se mi va bene probabilmente no…”
“E noi?” mi domandò, “Non ti importa se va bene per noi?”
“Certo che mi importa”.
“Dovevamo andare a vivere insieme o te lo sei dimenticata? Come pensi di fare a cinquecento chilometri di distanza?”
Gli risposi che non lo sapevo al momento, e che non potevamo ragionare come se fosse cosa fatta. Se anche avessi passato gli esami, mancava ancora l’ultima selezione: sarei tornata a Roma per altri venti giorni di prova e lì avrebbero deciso definitivamente i sei ammessi.
Lui annuì serio: “Però te lo dico. Se ti prendono, noi due ci lasciamo”.
“Ma come? E i nostri progetti? Butti via tutto?” chiesi sbigottita.
“Mi pare che tu ne abbia altri”.
“Possono esistere entrambi!”
“Per me no” concluse, lasciandomi senza parole. “Ma poi devi per forza farla questa scuola? Non puoi scrivere per conto tuo?”
Quella notte cercai il bordo del letto, rannicchiata in bilico tra il materasso e il vuoto, nella speranza inutile di riposare. Passai in rassegna le mille possibili domande che avrebbero potuto farmi il giorno successivo, e la scoperta fu che non ero in grado di rispondere a nessuna, che non avevo mai visto un film né letto un libro. Se anche mi avessero chiesto: “Parla del tuo scrittore preferito”, avrei fatto scena muta. “Se inizi una cosa la devi finire” ammoniva il Cervello dello Scritto, “non si lasciano le cose a metà”. Ma il Cervello dell’Orale era completamente andato, ragionava solo sui possibili vantaggi di ritornare in Veneto e dimenticare un sogno che ora mi faceva sentire sciocca e inutile. Ero ancora in tempo per fare marcia indietro ed evitare di buttare al vento un futuro certo per rincorrerne uno del tutto aleatorio, bastava andare in stazione e salire sul primo treno per Rovigo. Non era difficile. Allora perché piangevo?
La mattina dopo mi presentai al colloquio ammaccatissima, gli innumerevoli caffè presi erano serviti solo a detonare una tachicardia feroce. Seduta in corridoio osservavo i candidati che entravano e poi uscivano, chi sfiduciato, chi dubbioso, chi – pochi – ottimista. Quando venne il mio turno mi alzai a fatica per entrare in un’aula dove registi e sceneggiatori di cui avevo visto i film e letto i nomi sui titoli di testa mi fissavano in carne ossa. Li guardai uno per uno, per capire che aria tirasse. Mi sembrarono serissimi.
“Andiamo via!” propose il Cervello dell’Orale.
“Scordatelo!” scalpitò il Cervello dello Scritto.
“Ho da fare oggi” disse il Cervello dell’Orale mostrando il suo cubo, “devo scendere sotto i trenta secondi”.
“Oh certo! Per questo siamo venuti qua, per fare il record! Ma non ti vergogni?” proruppe l’altro strappandoglielo di mano.
“Non mi vergogno, e non fare l’esaltato!” lo riacchiappò lui.
“Finiamo questa cosa e poi ce ne andiamo”.
“Ti odio!”
“Ah sì? Ma l’hai capito o no cos’ha fatto Stefano? Ha colpito te perché ti crede più debole. Poteva uscirsene prima con questa storia della distanza, e invece no. Ha aspettato il giorno dell’orale, proprio quando toccava a te e sbam, un bel cazzotto sul naso”.
“Nessuno ha picchiato nessuno!”
“Eppure ti ha fatto a pezzi! Come te lo spieghi?”
Il Cervello dell’Orale tacque, ferito nell’orgoglio. Era vero. Stefano avrebbe potuto tirare fuori quel discorso in qualsiasi altro momento, invece aveva scelto proprio quello in cui mi sentivo più insicura. Consapevolmente o meno, mi aveva seguita a Roma per tenere d’occhio le mie mosse, sperando in un naturale insuccesso, e nel momento in cui invece si era prospettata una possibile riuscita, proprio quando avevo avuto più bisogno del suo supporto, mi aveva zavorrato per farmi desistere.
Con quella consapevolezza salì prepotente l’amarezza, ma quasi per magia emerse anche quello che avevo rimosso: libri, film, battute, scene intere.
“Viene a sedersi o le portiamo lì la sedia?” mi chiese uno degli esaminatori, con accento toscano, sorridendomi.
Così feci un passo, poi un altro, e mi sedetti. Notai che la sedia, nonostante l’aspetto spartano, era piuttosto comoda, e mi faceva sentire a mio agio, accolta, forse, addirittura, ospite gradita.
“Dai vecchio!” sentii dire dal Cervello dello Scritto al fratello, “ce la puoi fare!”.
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Se stai subendo stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.
Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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