Le leggi sulla violenza contro le donne ci sono, sono buone, ma tutto è perfettibile. E allora dopo il Codice Rosso del 2019 è in arrivo il Codice Rosso “rafforzato”, che ha destato più di qualche perplessità. Soprattutto perché, dicono alcuni esperti del settore, magistrati e operatrici dei centri, le priorità sono altre: mancano le risorse, manca la formazione, da rendere obbligatoria, per i magistrati, manca attenzione oltre alla fase delle indagini alla la fase del processo vero e proprio, spesso troppo lungo. E non mancano voci critiche proprio sulle novità che inserisce il nuovo provvedimento.
Il Codice Rosso “rafforzato”, passato in prima lettura in Senato, secondo Giulia Bongiono, presidente della Commissione Giustiza che l’ha proposto, è uno strumento per applicare in maniera più rigorosa il Codice Rosso. Prevede che se il pm non sente la donna entro tre giorni dalla denuncia, il Procuratore della Repubblica può intervenire revocando l’assegnazione del procedimento.
Roia: «La donna va sentita entro 3 giorni solo se c’è necessità, per colmare le carenze della denuncia»
Una delle voci critiche è quella di Fabio Roia, giudice esperto di violenza di genere e presidente del Tribunale di Milano.: «Ha senso sentire la donna entro i tre giorni, eventualmente, per colmare i vuoti della denuncia querela, non negli altri casi. Al tribunale di Milano c’è una direttiva che dice come la donna va dasentita entro 3 giorni solo se c’è la necessità, se in questo modo cioè si completa la denuncia querela. Se per esempio c’è un referto ospedaliero, con 25 giorni di prognosi per la donna, quest’ultima va sentita. Se la querela è completa, invece, è inutile sentirla”. Inoltre, aggiunge Roia, rafforzare l’obbligo del Pm di sentire la donna entro tre giorni va contro «la direttiva del 2012 a tutela delle vittime vulnerabili che dice l’opposto. Quando hai un soggetto vulnerabile fragile, come la donna vittima di violenza, bisogna evitare di sentirla più volte perché si può creare un danno. Secondo Roia, già il Codice Rosso raggiunge lo scopo che i pm leggano le querele, studino il caso, sentano la donna se necessario. «Il nuovo ddl non aggiunge nulla, crea meccanismi farraginosi e va contro l’interesse della donna”.
Bongiorno: “Troppe donne uccise che avevano denunciato, Codice Rosso va applicato in maniera rigorosa”
Di parere opposto è la senatrice Giulia Bongiorno che difende il ddl da lei presentato spiegando: «è di fatto un modo di rendere più stringente l’applicazione del Codice Rosso che non aveva lacune ma non è stato applicato in maniera rigorosa. Per la mia esperienza chi denuncia ha bisogno di aiuto e normalmente non vede l’ora di parlare, altrimenti perché ha fatto denunzia? Detto questo, la donna che viene chiamata e non si sente di parlare, può dirlo. Non le possono estorcere la confessione, ma se denuncia vuol dire che sta chiedendo aiuto allo Stato”. Bongiorno ricorda che 15 donne su 100, nonostante abbiamo denunciato, vengono uccise. «Quelle 15 donne uccise sono donne che hanno denunciato. Se scopriamo che le donne continuano a non essere ascoltate, allora forse c’è qualcosa che manca. Il codice Rosso rafforzato è una sorta di termometro» sulla situazione e «consente di sentire la donna».
Di avviso contrario è Valeria Valente, senatrice Pd e già presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio. «Non tutte le vittime – scrive nel suo intervento pubblicato su AlleyOop-il Sole 24 Ore – di abusi e violenze si sentono pronte a essere ascoltate entro tre giorni dalla denuncia: tante volte chi trova il coraggio di andare in commissariato ha poi bisogno di tempo, non si sente pronta a rivivere una seconda volta in poche ore quel vissuto doloroso. Incalzare queste donne con termini temporali troppo rigidi e automatici può minare addirittura l’esito del procedimento ed essere penalizzante per chi è costretto a ripetere quel racconto in una condizione emotiva di forte paura e sofferenza. Noi abbiamo scelto di dare voce a quelle donne, agli operatori, ai Pm che abbiamo audito in Commissione e che hanno espresso i nostri stessi dubbi».
Il Codice Rosso ‘rafforzato’ è stato modificato in commissione Giustizia del Senato. La prima versione del ddl prevedeva l’’avocazione del Procuratore generale della Corte di Appello, qualora non fosse sentita la donna entro i 3 giorni. In commissione a è passato un emendamento, presentato dalla maggioranza, che parla non più di avocazione, ma di revoca del provvedimento da parte del Procuratore capo, nell’ambito quindi dello stesso ufficio e non tra uffici diversi come prevedeva la prima versione. Il provvedimento prevede anche il controllo da parte del Procuratore generale della Corte di Appello ogni tre mesi su su quante donne siano state ascoltate nei tre giorni, su quante non lo siamo state, e per quali ragioni.
Bene: «Giusta la modifica in commissione Giustizia, ma non siamo di fronte a provvedimenti radicali, lavorare sulla formazione»
Per Teresa Bene, professoressa ordinaria di diritto processuale penale all’Università degli studi di Napoli Federico II, «il disegno di legge, approvato in Senato il 3 Maggio 2023, in relazione ai procedimenti per violenza domestica e di genere dimostra, qualora ciò fosse ancora necessario, l’attualità e la drammaticità di un fenomeno molto diffuso». Inoltre «l’iter seguito in Senato consente di considerare positivamente la modifica inserita in Commissione giustizia. Rispetto all’originaria previsione di una “anomala e ulteriore forma di avocazione obbligatoria”, nell’ipotesi di mancata assunzione della dichiarazione della persona offesa nei tre giorni successivi alla denuncia, si introduce una diversa previsione che tende ad assicurare e a rafforzare il controllo e la supervisione, in verità, già prevista in generale, in capo al Procuratore della Repubblica».
In particolare, spiega Bene, «se il pubblico ministero assegnatario delle indagini non procede nel termine dei 3 giorni all’ascolto della persona offesa, il procuratore della Repubblica può revocare l’assegnazione del procedimento, procedendo direttamente o attraverso l’assegnazione ad un altro magistrato dell’ufficio all’assunzione di informazioni dalla persona offesa, salvo che non emerga la necessità di tutelare i minori o la riservatezza delle indagini. Il meccanismo delineato assicura anche un controllo diffuso, poiché è previsto, altresì, che il Procuratore generale presso la Corte d’appello riceva, con cadenza trimestrale, dalle Procure della Repubblica i dati sul rispetto del termine; dati che poi dovranno essere inviati al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione con una relazione semestrale. Dunque, e nel complesso, non siamo di fronte a modifiche radicali o efficaci».
I problemi più grossi, per la professoressa Bene, sono altrove. «Restano ferme infatti le criticità di un sistema normativo che investe su obblighi procedurali, controlli “gerarchici” interni agli Uffici di Procura ( che del resto, si pongono in linea con la fisiologica attività di supervisione interna già prevista) e che trascura la necessità di un efficace intervento sul piano formativo e culturale. Del resto, è lecito domandarsi il perché dell’esigenza di specificare, ribadire e , in parte, rivedere la disciplina interna agli uffici di procura. Sembra, implicitamente, che il legislatore sia consapevole dell’inadeguata formazione specifica degli Uffici di Procura a “gestire” i procedimenti per reati di violenza di genere e di violenza domestica. Con sano realismo, si intravedono anche le criticità della “sezione specializzata” ed esperta in materia di violenza di genere».
Di Nicola: «Il problema vero sono i processi lunghi, non è nella fase delle indagini»
Sulla necessità di dare priorità alla formazione concorda Paola Di Nicola, una delle magistrate italiane più esperte nella lotta alla violenza di genere che, inoltre, vede il problema da risolvere per tutelare le donne non tanto nella fase delle indagini, ove insiste anche il Codice Rosso rafforzato, ma piuttosto nella fase del processo. «Il problema attualmente del contrasto giudiziario alla violenza contro le donne riguarda i processi che sono troppo lunghi e che non tutelano le donne, la fase delle indagini è stata molto rafforzata dal Codice rosso; le nuove norme continuano a mettere sotto i riflettori l’unico soggetto che ha accelerato ed è già controllato: cioè il pm. Ad oggi il procuratore generale già può avocare le indagini, quindi il problema non sono le indagini, sono i processi che si fanno in modo troppo lento. Bisogna mettere l’attenzione del legislatore sulla velocizzazione dei processi e sulla tutela delle vittime durante il processo. La tutela delle vittime c’è nella fase delle indagini ma è rara durante il processo».
Per Di Nicola, il termine di sentire la donna entro tre giorni, già previsto nel Codice Rosso «molto criticato all’inizio invece si è rivelato opportuno, il Parlamento ha fatto molto bene a stabilire un termine per dimostrare che questi processi hanno bisogno di una tutela immediata. Entro tre giorni magari la donna non ce la fa e qui entra in gioco l’intelligenza del pm per capire quando la situazione necessita di tempo. Solitamente quando si va a denunciare è perché c’è una situazione di pericolo immediato, quind,i i tre giorni vanno bene a livello generale. Ma se non c’è formazione obbligatoria dei magistrati è inutile mettere il termine dei tre giorni, rafforzare i controlli, è tutto inutile se non siamo formati. Purtroppo, la formazione obbligatoria non c’è».
Biaggioni (D.i.Re): tassi di condanna bassi, questa norma non migliora la situazione»
Più netta e a 360 gradi la critica dei centri anti violenza, strutture fondamentali nella lotta al fenomeno. «Continuiamo a constatare tassi di condanna molto bassi nei casi di maltrattamento e violenza contro le donne e non capiamo come questa norma possa migliorare la situazione. L’urgenza di ascolto immediato delle donne deve riguardare esclusivamente i casi a rischio e non tutte le migliaia di donne che cercano di uscire da situazioni di maltrattamento. Quando tutto è emergenza, nulla lo è più davvero», dichiara la vicepresidente di D.i.Re Elena Biaggioni. «Anche tra le indicazioni del Grevio era indicata come buona prassi quella di non far dipendere tutto dalle testimonianze delle donne: non vediamo scelte in questa direzione», continua Biaggioni. «La violenza, ancora, non è riconosciuta nei tribunali e non comprendo come questa norma possa perseguire l’obiettivo di un maggior riconoscimento della violenza da parte dei giudici».
Palladino (Cooperativa E.v.a.): provvedimento inutile mentre Piano antiviolenza lettera morta
Sulla stessa linea Lella Palladino della Cooperativa Eva, che giudice quello in discussione in Parlamento è un provvedimento inutile e potenzialmente pericoloso. Intanto il Piano nazionale antiviolenza è lettera morta, i centri antiviolenza senza risorse, le donne senza lavoro e autonomia economica. Ancora una volta, dunque, «mentre persistono le croniche criticità del sistema integrato di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne, assistiamo alla rincorsa a legiferare con un approccio repressivo e securitario». Nel frattempo siamo «ancora in attesa della programmazione esecutiva del Piano nazionale antiviolenza, non si intravede una tempistica per il trasferimento delle risorse ai centri antiviolenza, siamo di fronte a uno scenario di confusione generale e di disorientamento per l’attuazione delle riforme del sistema giudiziario sia penale che civile, e la maggioranza cosa fa? Si concentra su un ddl che ignora nei fatti i bisogni delle donne. Mentre, sappiamo bene che il rispetto dei tempi di ognuna è condizione prioritaria e imprescindibile perché il percorso di fuoriuscita dalla violenza sia duraturo e senza ricadute».
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