A fare da apripista è stata Anna Maria D’Ascenzo che nei primi anni ’90 fu la prima donna a essere chiamata a ricoprire la carica di prefetto. Da allora le donne in prefettura di strada ne hanno fatta molta. Basti pensare che oggi città importanti e difficili da gestire come Napoli, Roma, Milano, Messina e Palermo sono guidata da una prefetta. Numeri alla mano, le donne rappresentano il 42% dei prefetti (dati 2015). Il gap del 16% con gli uomini sembrerebbe inoltre destinato ad assottigliarsi, stando a una ricerca condotta nell’ambito della collaborazione tra il Centro di ricerca sule pubbliche amministrazioni Vittorio Bachelet della Luiss Guido Carli e l’Anfaci. La percentuale ‘rosa’ nell’ambito di viceprefetti e viceprefetti aggiunti è infatti, rispettivamente, del 61% e del 55 per cento.
La superiorità numerica degli uomini nelle posizioni apicali sembrerebbe destinata dunque a modificarsi, visto che il bacino a cui attingere per la carriera di prefetto è soprattutto al femminile. A spiegare il successo delle donne nella carriera prefettizia è Antonella De Miro, prefetto in una grande, bella e difficile città come Palermo: “forse le donne, guidate da un innato intuito e pragmatismo, hanno saputo interpretare in questi anni i cambiamenti della società favorendo anche quelli che lo stesso legislatore ha impresso all’istituto prefettizio, che da istituzione occhiuta di controllo di atti si è trasformata negli ultimi decenni in istituzione di difesa dei diritti, della sicurezza, delle libertà, della democrazia”.
Le fa eco Carmela Pagano, prefetta di Napoli: “la relativamente recente apertura della carriera prefettizia alle donne, risalente come per la magistratura agli anni ’60 del secolo scorso, si inquadra nel processo di evoluzione generale dell’emancipazione femminile e di sempre più compiuta realizzazione dei dettami costituzionali di eguaglianza di genere, che hanno fatto sì che le donne abbiano trovato spazio anche in professioni che costituivano tradizionale appannaggio degli uomini”. Del resto quella del prefetto è “una professione spiccatamente orientata al servizio delle istituzioni e dei cittadini, che non può non esercitare una forte attrattiva su una platea particolarmente motivata come quella femminile”.
Una delle problematiche della carriera di prefetta è, com’è immaginabile, quella di conciliare lavoro e famiglia. “Ho la fortuna – spiega Francesca Ferrandino, attualmente a capo della prefettura di Messina, ma anche segretario generale dell’Anfaci, l’Associazione nazionale dei funzionari dell’amministrazione civile dell’Interno – di svolgere un lavoro che mi appassiona e nel quale trovo interesse. Questo è sicuramente un vantaggio perché esso non viene percepito né da me, né dalla mia famiglia come un corpo estraneo che sottrae tempo e risorse alla nostra vita”.
Tre donne, tre prefette che si sono misurate con emergenze sempre più importanti, come quella dell’immigrazione. Nella sua carriera Ferrandino ha affrontato ad Agrigento l’emergenza del Nord Africa; a Bergamo ha trattato i temi connessi con l’immigrazione, come le politiche di coesione e inclusione delle seconde generazioni di immigrati; a Messina ha organizzato, per gli aspetti di competenza, il G7 del maggio scorso. “Tutti i territori, ciascuno con le proprie caratteristiche, si misurano con temi di vasta portata. Agiamo e lavoriamo – spiega – in città che, da un lato, sono aperte al mondo, ma dall’altro, rischiano fratture. Basti pensare ai temi che caratterizzano il lavoro quotidiano dei prefetti: l’immigrazione e con esso la necessità di integrare i gruppi etnici e culturali; le mediazioni sociali particolarmente sviluppate a causa delle frequenti tensioni sociali scaturite dalla crisi; l’impegno per affermare la legalità dal punto di vista economico, sociale, civile”.
Tra gli allarmi più impellenti le tre prefette confermano la crescente importanza della minaccia terroristica. “Viene considerata con particolare attenzione dalla Prefettura e ha reso necessario – spiega la prefetta di Palermo – costruire e valorizzare sinergie istituzionali per la predisposizione di piani mirati ad elevare i controlli alle frontiere e rendere sicuri i siti più esposti quali l’aeroporto, i porti e gli altri obiettivi sensibili. Gli attentati in Europa rivendicati dall’Isis hanno altresì richiesto l’adozione di misure volte a garantire la sicurezza delle persone in occasione di particolari eventi con forte richiamo di pubblico o anche in luoghi affollati che possono presentare aspetti di criticità in relazione alle palesate modalità usate dai terroristi. Sono stati istallati, quindi, a protezione, dei new jersey, ma si è aperto subito un dibattito in città per rendere le pareti in cemento godibili attraverso espressioni artistiche. Già nei pressi della Cattedrale di Palermo, in occasione della festa dell’onestà per ricordare il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa nell’anniversario della sua uccisione, il 3 settembre, bambini di un quartiere a rischio criminalità hanno dipinto, sotto la guida di un maestro, alcune barriere, mettendo in primo piano la figura del poliziotto e del carabiniere a difesa dei loro luoghi di vita. Un segno di raggiunta maturità civica”.
A Napoli tra i temi ‘caldi’ si contano, spiega Pagano, il “persistente oltraggio all’ambiente, su cui pesano anche influenze della criminalità organizzata; l’ ancora insufficiente coesione sociale e istituzionale e la conseguente scarsa capacità di trovare soluzioni condivise a problemi annosi”. Tutto ciò costringe la Prefettura a continui interventi di raccordo sui più svariati temi, anche di interesse prettamente locale”. Ma in cima alla lista, in ordine di priorità, c’è la “pervasiva presenza della criminalità organizzata, che esercita un ruolo di forte freno allo sviluppo locale”.
Le tre prefette il 22 settembre si confronteranno, proprio sul tema cruciale dell’amministrazione per prevenire le mafie, in occasione della tavola organizzata dal Centro di ricerca Vittorio Bachelet e dall’Anfaci. “La mafia – spiega De Miro – è oggi un’organizzazione criminale tanto più pericolosa perché ha scelto la via dell’inabissamento. Non più la guerra violenta contro lo Stato, non più la eliminazione fisica cruenta di chi si frapponeva alla sete di dominio e di potere; oggi si insinua silente nelle pubbliche amministrazioni, nell’economia legale e sempre più spesso veste in giacca e cravatta e ha il volto delle professioni. E la corruzione è oggi il sistema praticato per piegare ai propri interessi speculativi le istituzioni e processi amministrativi. Le Prefetture sono molto attente a portare avanti una determinata forte azione di prevenzione delle infiltrazioni mafiose negli enti locali e nell’economia legale”. Soprattutto per quanto riguarda “la vigilanza sul corretto svolgersi delle libertà democratiche allo scopo di intercettare eventuali forme di condizionamento delle scelte dell’ente locale da parte della criminalità organizzata mafiosa” e “la prevenzione delle infiltrazioni mafiose nell’economia legale, attraverso l’adozione delle interdittive antimafia che escludono la partecipazione ad appalti e sub appalti da realizzarsi con pubblico danaro di quelle ditte nei cui confronti viene accertato il pericolo della condizionabilità da parte della mafia”. Per rafforzare il sistema delle cautele antimafia, superando anche le previsioni della norma, “molto praticato è lo strumento dei protocolli di legalità volti ad estendere i controlli su attività o procedure la cui obbligatorietà è esclusa”.
Con l’obiettivo di ottenere risultati duraturi nel contrasto alla criminalità, aggiunge Pagano, “i nodi centrali sono quelli del coinvolgimento e della mobilitazione di tutti i livelli istituzionali, oltre ai cittadini, di una più affinata capacità di reclutamento e formazione degli amministratori e dirigenti, soprattutto a livello locale, e di un’incessante attività di risanamento dei contesti più caratterizzati da marginalità, suscettibili di subire l’influsso ingannevole della criminalità organizzata, che offre facili e rapidi guadagni, a soggetti sempre più giovani. La parola chiave, rilevante ai fini della risposta, è perciò ‘amministrare’, nell’accezione più nobile del termine, cioè quella di efficiente ed efficace attuazione delle politiche pubbliche, locali e/o nazionali, in modo integrato, condiviso e trasparente”. Una linea di intervento condivisa da Vincenzo Antonelli, vicedirettore del centro di ricerca sulle pubbliche amministrazione Vittorio Bachelet della Luiss: “Il contrasto alle mafie, già a partire dalla legge Rognoni-La Torre del 1982, cerca di coniugare gli interventi sul piano penale con quelli sul piano dell’amministrazione. Oggi lo si fa su due versanti: da un lato con delle misure amministrative finalizzate a contrastare i condizionamenti e le infiltrazioni da parte della criminalità organizzata nella gestione della cosa pubblica, come nel caso dello scioglimento dei consigli comunali, e con degli strumenti adottati nella contrattualistica pubblica (fino ad arrivare a un rating di legalità dei privati che negoziano con la pubblica amministrazione); dall’altro con una buona amministrazione che sia capace di garantire dei servizi di qualità. La mafia si annida, infatti, dove la pubblica amministrazione è incapace di garantire i diritti dei cittadini sostituita da un vero e proprio ‘welfare mafioso’”.