Insomma, che cosa dobbiamo aspettarci dalla maternità? Dobbiamo cercarla oppure averne paura, nasconderla oppure esibirla, come ha fatto la modella e artista Maia Ruth Lee sfilando con il cardigan spalancato sul prominente pancione alla New York Fashion Week?
Dobbiamo pensare che ci azzopperà, che diminuirà la nostra professionalità e le nostre speranze di reddito, come mostrano le più recenti statistiche europee, oppure possiamo sperare che ci renda effettivamente più forti e veloci, come fa con le mamme ratto, che hanno il cervello più simile a quello umano di buona parte del mondo animale?
La domanda se l’è posta di recente la rivista Atlantic, famosa per aver pubblicato nel 2012 il pezzo di Anne-Marie Slaughter “Perché le donne non possono avere tutto”, che finalmente ha strappato il velo all’illusione di onnipotenza che ci ha portate nel ventunesimo secolo. No, non possiamo avere tutto. Ma forse è la domanda ad essere sbagliata, si scopre leggendo l’articolo sull’Atlantic di Erika Hayasaki.
Lei, come anche l’artista Hein Koh, prima di diventare madre si è domandata se questo le avrebbe consentito di restare talentuosa e creativa, o se la scelta l’avrebbe invece costretta a scendere da qualsiasi treno. Ne aveva e ne abbiamo ben donde, nel porci questa domanda: quando ha annunciato la sua maternità, alla musicista Amanda Palmer i fan hanno chiesto se i suoi produttori la pagassero per fare musica o per sfornare bambini, come se le due cose fossero in concorrenza.
E domande analoghe tengono sveglie molte donne italiane che si trovano nella fase della vita in cui prendere questa decisione, spesso proprio la stessa fase della vita in cui il lavoro ci dà l’opportunità di fare ed essere di più. O ce la darebbe, se non scegliessimo di diventare (anche) madri.
Sarà per questo che solo 48 degli 822 premi Nobel assegnati dal 1902 sono andati a delle donne, madri oppure no? Negli Stati Uniti, le artiste rappresentano meno del 5% delle principali collezioni permanenti, e solo il 16% dei Premi Pulitzer per il giornalismo dell’ultimo secolo sono andati a donne: creare la vita rende meno creative, dunque? O è solo un pregiudizio culturale talmente forte da condizionare la realtà?
Ovviamente io credo nella seconda risposta, e mi confortano molti degli studi citati dal pezzo dell’Atlantic. Lo psicologo Morris Stein, nel 1953 ha definito la creatività umana come la produzione di qualcosa di originale e utile. Rex Jung, un neuropsicologo dell’Università del New Mexico ha portato oltre tale definizione: secondo lui un’idea creativa deve essere anche sorprendente.
“La creatività richiede la capacità di creare connessioni inusuali: è una forma di problem solving originale. Si tratta di un processo che deriva dall’evoluzione della nostra specie, ed è essenziale alla sopravvivenza. Le persone creative si prendono dei rischi: sono coraggiose e cercano nuovi modi di fare le cose. Nel periodo di estrema pressione che attraversano le neo madri con un corpo che cambia e sbalzi ormonali, ecco quando la creatività ha più probabilità di emergere come un processo di pensiero altamente adattivo”.
Concordano a gran voce l’autrice del pezzo sull’Atlantic e le artiste che vi cita: non super mamme, ma grandi artiste, che nell’amore per la vita continuano a trovare ispirazione.